Giornata della memoria. Il sacrificio di Maria Borgato
Aperta la causa di beatificazione per la suora laica di Saonara che organizzò, insieme alla nipote Delfina (nella foto con il vescovo Antonio), gli aiuti a 50 ex prigionieri alleati scappati dai vivai Sgaravatti dopo l’8 settembre. A causa di una delazione, furono scoperte e internate a Ravensbrück dove Maria si ammalò e morì. La vita di Maria Borgato è stata tutta dedicata agli altri e al Signore, come orsolina laica, insegnante di catechismo e poi in soccorso dei soldati alleati
Dopo Placido Cortese ora anche Maria Borgato si candida al riconoscimento più elevato della chiesa: la santità. Il 14 gennaio, alla presenza del vescovo Antonio Mattiazzo, in collegio sacro si è insediato il tribunale ecclesiastico che vaglierà documenti e atti sulla vita e la tragica testimonianza finale della donna, morta a 46 anni nel lager di Ravensbrück. La sua colpa? Aver aiutato gli ultimi nel nome della carità cristiana. La commissione è composta dal postulatore mons. Giuseppe Magrin, il vice postulatore mons. Pietro Brazzale, don Sergio Zorzi, don Antonio Oriente, don Emilio Moro. Sarà affiancata da una commissione storica composta da don Stefano Dal Santo, don Alberto Celeghin, Enzo Zatta (primo biografo della Borgato), don Luciano Cavazzana.
Luigia Maria Pulcheria Borgato dei “Soti” (era questo il soprannome della famiglia), più semplicemente Maria, nata nel 1898, dopo aver frequentato le prime due classi elementari, lavora nella scuola di ricamo della contessa Pia di Valmarana e insegna catechismo nel suo paese, Saonara, dove abita con i genitori e la famiglia del fratello Giovanni. Si occupa dell’educazione religiosa della nipote Delfina che dorme nella sua stessa stanza. Vorrebbe diventare suora ma una lussazione congenita all’anca che la fa zoppicare glielo impedisce. Si fa quindi suora laica orsolina, frequentando gli incontri mensili a Liettoli di Campolongo Maggiore. Fa il noviziato nel 1919 e la professione l’anno seguente.
Vicino alla casa dei Borgato, nella “boaria” Sgaravatti, c’è un campo di lavoro con 130 prigionieri alleati di varia nazionalità: sudafricani, australiani, neozelandesi che gli Sgaravatti hanno ottenuto dal prefetto di utilizzare nel lavoro dei campi. Dopo l’8 settembre scappano, ma i tedeschi li cercano per portarli in Germania; gli sbandati si nascondono nei campi, nei fossi, bussando la sera alla porta delle case contadine isolate, come quella dei Borgato. Sono diverse le famiglie che li aiutano, nonostante il pericolo.
Maria diventa subito l’organizzatrice degli aiuti: come maestra di catechismo conosce quasi tutte le famiglie del paese e sa di chi può fidarsi. Non potendo andare in bicicletta, manda la nipote Delfina, sedicenne, a raccogliere viveri e indumenti. Ma con l’avanzare dell’autunno i prigionieri non riescono più a nascondersi nella campagna ormai spoglia. È allora che, tramite la farmacista del paese, sua amica, entra in contatto con le sorelle Martini, collegate alla rete di padre Cortese, conventuale del Santo.
Così Maria e Delfina organizzano le fughe dei prigionieri accompagnandoli prima al porto di Chioggia (da dove riuscivano a fuggire aiutati da padre Domenico Artero), poi a Padova, dove vengono presi in consegna dalle Martini e portati fino a Oggiono al confine svizzero. Le Borgato riescono così a salvare una cinquantina di persone. La notte del 13 marzo 1944, tedeschi e fascisti, avvertiti da una spia, irrompono in casa Borgato, mettono tutto a soqquadro e caricano su un camion Maria, Delfina e suo padre Giovanni. Vengono incarcerati a Venezia a Santa Maria Maggiore; dopo quattro mesi, con altre 15 donne e una cinquantina di uomini, il 27 luglio le due Borgato passano al carcere di Bolzano. Il 7 ottobre Maria è trasferita al blocco 17 del lager femminile di Ravensbrück, 80 chilometri a nord di Berlino. Il viaggio dura quattro giorni; le donne sono chiuse in più di cinquanta in un vagone blindato senza luce e poca aria.
Arrivate al lager le 113 italiane dopo un lunghissimo appello e una doccia, ora bollente ora gelida, vengono sottoposte all’umiliazione della “visita”, rivestite con casacche e zoccoli spaiati, vengono poi separate a seconda dei lavori assegnati: trasporto sabbia e carbone, produzione di fili elettrici, manometri, trasmettitori per la Siemens. Alcune di loro vengono trasferite a Henningsdorf in una fabbrica di parti d’aeroplani. Maria Borgato, in condizioni di salute precarie, quindi inabile al lavoro, rimane a Ravensbrück. Quando le altre torneranno, poco prima della liberazione, non c’è più.