Un'accoglienza che riscalda

Si è conclusa a marzo l’ottava edizione dell’accoglienza invernale, il piano straordinario di ospitalità per le persone senza fissa dimora che gravitano nel territorio della città e che non hanno un luogo dove dormire. Partita il 25 novembre 2013, ha visto tre soggetti interagire e collaborare strettamente: il settore dei servizi sociali del comune di Padova, la Caritas – a livello diocesana e parrocchiale – e numerosi enti e associazioni del privato sociale.

Un'accoglienza che riscalda

Tra le esperienze più significative, quella che è maturata nella parrocchia di Altichiero, dove l’accoglienza invernale che si è chiusa a marzo è stata una “prima volta” motivante per tutta la comunità. Luogo prescelto, il magazzino di casa Betania, la struttura di accoglienza nata nel Giubileo del 2000 e da alcuni anni seguita dalla cooperativa Polis nova.
«Con un gruppo di volontari, tutti provenienti dal gruppo famiglie – racconta Franco Zanetti, coordinatore dell’accoglienza invernale per Altichiero – abbiamo cominciato a parlarne a ottobre. Poi a novembre sono iniziati i preparativi e così abbiamo sistemato il magazzino che ora ha cinque posti letto, un tavolo con le sedie, un bagno con doccia, dei mensoloni sulle pareti per appoggiare i beni degli ospiti, una televisione e un forno a microonde».

Quando siete stati operativi?
«Dal 1° dicembre al 30 marzo mattina: abbiamo chiuso quindici giorni più tardi rispetto alle altre realtà, grazie a un permesso straordinario di comune e Caritas».

Com’è stato quest’inizio?
«Tanto entusiasmo e curiosità, ma anche sensazioni fosche, fatte di confusione e paura. Confusione perché, al di là dei gesti pratici, come arredare la stanza o preparare i turni dei volontari, non ci erano ben chiari i ruoli degli attori che ci avrebbero affiancato: servizi sociali, Caritas, Casetta Borgomagno, Sert. E poi la paura...».

 In che senso?
«Gli stereotipi traboccanti da giornali e tv ci rendevano titubanti: serpeggiavano l’idea e il timore che sarebbero arrivate delle persone sporche e cattive, ubriache, pericolose».

E invece?
«Il primo giorno sono arrivati cinque ospiti: sorridenti, gentili, puliti. E così è stato anche per gli altri giorni: uomini, con la loro dignità, con il bisogno di avere e ricambiare rispetto, con le loro grandezze e bassezze, esattamente come tutti. E allora il grigio castello dei preconcetti è crollato».

Quanti ospiti avete avuto?
«Due, un moldavo e un tunisino, sono stati con noi per tutto il periodo, gli altri si sono alternati, fermandosi però più di una settimana a testa. Venivano da Tunisia, Marocco, Moldavia. Il più grande aveva 49 anni, il più giovane 30».

Vi hanno raccontato le loro storie?
«La maggior parte di loro fino a poco tempo fa lavorava: nell’edilizia, in officine, facendo traslochi... Poi la crisi ha spazzato via le loro speranze di emancipazione e li ha ricacciati indietro. Hanno dovuto rinunciare al lavoro e alle abitazioni che occupavano in affitto e hanno cominciato a chiedere aiuto. Quasi tutti hanno i loro cari nel paese d’origine: la nostalgia è tanta e tra loro comincia prepotente a farsi strada il pensiero del ritorno».

Qual è stato il ruolo dei volontari?
«Siamo partiti in pochi e ci siamo trovati in 27 volontari uomini e 6 donne, che hanno curato in particolare le pulizie di fondo. Ogni volontario ha avuto un turno quindicinale. Si apriva alle 19, si accoglievano i cinque ospiti e si stava con loro finché la stanchezza non li portava a dormire, anche fino alle 22.30. Alle 7 un volontario preparava il caffè e faceva le prime pulizie. Poi la stanza si chiudeva per riaprirsi la sera, il momento più ricco e intenso di relazioni. Gli ospiti ci hanno stupito tutti i giorni. In particolare ne ricordiamo due».

Per quale motivo?
«Con il primo, il più giovane, rumeno, rimasto da noi 48 giorni, abbiamo costruito un bel rapporto leggendo insieme la sua situazione, confrontando ciò che aveva qui in Italia in termini di relazioni e opportunità e ciò che aveva lasciato in Romania. Dopo questo lungo confronto, ha deciso di ritornare a casa per ricostruirsi lì una vita. C’è poi un altro ospite rumeno che ha fatto da testimone durante l’incontro di catechesi dei ragazzi di seconda e terza media: ha raccontato perché ha lasciato la sua terra e cosa stava cercando. I ragazzi sono rimasti davvero colpiti».

Quindi la comunità parrocchiale è stata coinvolta.
«L’intento di casa Betania è quello di sensibilizzarci come comunità alla cultura della solidarietà, far sentire e gustare il sapore dello stare accanto a chi è in difficoltà. L’esperienza dell’accoglienza invernale ci ha dato tanto: un mondo fatto di situazioni, frasi, strette di mano e sorrisi, sfoghi e condivisioni. È una ricchezza che condivideremo in consiglio pastorale, anche per capire come usare casa Betania nei mesi meno freddi».

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