Padova-Nyahururu, 50 anni di fraternità ecclesiale
Il mezzo secolo di collaborazione tra i fidei donum padovani e i sacerdoti locali ha costruito molto, in strutture e pastorale, e molto altro può far nascere nel confronto reciproco, nell’attenzione alle dinamiche in atto in una chiesa giovane, desiderosa di sperimentarsi, protesa verso una società in travolgente e talvolta acritico cambiamento.
Il presente “operativo” dei fidei donum padovani a Nyahururu, la diocesi costituita sull’altopiano del Nyandarwa e del Sud Laikipia, è fatto di quattro preti: don Mariano Dal Ponte, coordinatore del gruppo, responsabile dell’associazione Saint Martin e della comunità dell’Arca, don Sandro Borsa, amministratore dell’ospedale di North Kinangop, don Sandro Ferretto, parroco di Mochongoi e don Vittorio Grigoletto, parroco di Weru. Ad essi va aggiunta la famiglia di Fabio, Ilaria, Tommaso ed Edoardo Fanton, collegati al Saint Martin e all’Arca, e don Giacomo Basso, prete di Venezia parroco di Ol’ Moran, da sempre inserito nell’équipe padovana.
Ma il presente pastorale della chiesa padovana accanto alla chiesa sorella di Nyahururu è ben più sostanzioso e partecipe di quello che i numeri lasciano intravedere. «La nostra presenza – sottolinea don Mariano Dal Ponte – sta diventando sempre meno operativa e programmatica e sempre di più segno di uno stile, di collaborazione, di fraternità, di semplicità evangelica. Nell’arco degli ultimi anni la visibilità dei preti padovani è andata diminuendo, sia per l’aumento dei preti locali che per il calo dei nostri. Siamo inseriti in una chiesa giovane, in crescita, fatta di una settantina di preti giovani, di cui pochissimi sopra i sessant’anni, che ha voglia di agire, di mettersi alla prova, di rischiare anche. È una chiesa dinamica, in grande fermento e proprio per questo può giovarsi per alcuni aspetti del cammino che la chiesa padovana può testimoniare, dei pericoli che potrebbero forse essere evitati in base alla nostra esperienza e alle ricchezze che ancora restano da valorizzare».
Il pensiero va, da un lato, al processo di progressiva “parrocchializzazione” delle cappelle periferiche, che è sinonimo di vivace espansione, ma è chiamato a tener conto da un lato della ricchezza rappresentata dalla vita in comune dei presbiteri, dall’altro non può fare a meno della presenza responsabile dei laici, che la scarsità di preti e la strada appena tracciata dal concilio aveva “per forza di cose” valorizzato nel passato.
«La società africana – sottolinea don Mariano Dal Ponte – è in forte crescita e anche i processi di modernizzazione e secolarizzazione appaiono accelerati. In Kenya per esempio si è passati direttamente dalla mancanza di comunicazioni al cellulare, saltando la fase del telefono fisso. Allo stesso modo i passaggi culturali sono molto più veloci. Per questo ci facciamo portavoci di una comunità di preti che si impegna a servire insieme un territorio più ampio. Oppure siamo ancora presenza attiva in associazioni come il Saint Martin che ha una dimensione ecumenica molto forte, molto attenta alle realtà ecumeniche del territorio, e ha al suo interno una presenza laicale forte, ad alti livelli dirigenziali».
E il futuro porterà dei cambiamenti nella collaborazione tra le due diocesi? «Il futuro apre domande a cui non spetta a me rispondere – precisa don Mariano – ma su cui si possono formulare delle ipotesi, che richiedono comunque tempi lungi e una complessa rielaborazione. Forse è maturo il tempo in cui un prete di Nyahururu venga a Padova non per studiare, ma per svolgere il suo ministero pastorale. Forse la presenza dei fidei donum padovani a Nyahururu ha bisogno di essere ricalibrata. Fare missione oggi è sempre meno un “fare” e sempre più un promuovere un atteggiamento, un’attenzione. Il Kenya, per esempio, è un paese di giovani in cui stanno sorgendo come funghi nuove università. Le missioni in zone rurali sono belle, magari appaganti, ma fare missione è oggi guardare a centinaia di migliaia di giovani che non hanno nessuno che sia “appassionato” a loro, che vengono magari sbalzati da zone rurali, sradicati dalla loro vita familiare e lasciati un po’ in balia di se stessi, con una mancanza di strumenti critici che a volte li distrugge. La chiesa locale, e quella missionaria accanto a lei, sentono il bisogno di avere un occhio di riguardo verso il lavoro forsennato e indefesso che la società keniana oggi richiede nell’accompagnare queste nuove generazioni, nel promuovere la capacità critica che impedisca l’illusione di vedere la positività in tutto quello che è progresso, sviluppo e ricchezza, lasciando spesso il passo a dipendenze difficili da sradicare».