Missioni in Kenya. 50 anni in cui abbiamo anche – soprattutto – ricevuto
Un aspetto tutt'altro che secondario dello scambio che intercorre da mezzo secolo tra la diocesi di Padova e l'altopiano del Nyandarwa, nel Kenya centrale, è il flusso di sacerdoti africani arrivati in città per studiare e poi tornare nelle loro chiese per aiutarle a crescere. Mons. Renzo Zecchin, direttore del centro missionario diocesano al tempo dei primi arrivi, sottolinea l'accoglienza della gente verso questi presbiteri e l'importanza della condivisione di speranze e progetti.
La relazione che da mezzo secolo unisce la diocesi di Padova e l’altopiano del Nyandarwa, in Kenya, non ha prodotto solo aiuti a senso unico. Accanto allo sforzo di costruzione di comunità e strutture in territorio africano si è dato il via a un fitto scambio reciproco di idee e di persone tra le due chiese.
«La presenza di preti africani a Padova – ricorda mons. Renzo Zecchin, che era direttore del centro missionario diocesano quando questo scambio ha preso il via – non è giustificato dai tempi difficili per le nostre cristianità d’Europa. Anche se la loro presenza può diventare un aiuto notevole in determinati settori della vita delle nostre comunità. Quando mons. Mattiazzo accolse la richiesta di certi vescovi africani affinché alcuni dei loro preti venissero a studiare a Padova (e il primo fu un sacerdote della Costa d’Avorio dove era stato nunzio apostolico), si procedeva a un ulteriore passo nella maturazione vera della cooperazione tra le chiese. Se fino ad allora il flusso missionario era stato quasi a senso unico, da noi a loro, da quel momento si aprivano orizzonti nuovi di missionarietà. Non più da una chiesa madre, di antica tradizione, verso una nuova chiesa bisognosa di tutto, ma uno scambio tra chiese sorelle. La venuta tra noi di preti africani si trasformò in breve tempo dal solo ambito di studio per loro, a un loro coinvolgimento nella vita pastorale della nostra diocesi. Vennero mandati a vivere e a collaborare in nostre parrocchie, con noi preti diocesani. Ne ebbero vantaggio loro nel vedere dal vivo una pratica religiosa ormai adulta e millenaria. Ma ne ricevemmo stimolazioni anche noi, ormai abituati a certi ritmi e certezze. Fummo posti di fronte a possibilità alternative di approccio alla liturgia, pianificazione catechistica, avvicinamento e cura della sempre più numerosa comunità straniera a casa nostra».
La gente, sottolinea mons. Zecchin, al contrario di un presunto rifiuto psicologico del diverso, dello straniero, dell’africano, ha dimostrato una attenzione e un’accoglienza grande. Pochissimi i giudizi o pregiudizi. Tanta fraternità, tanta voglia di incontro. A dimostrazione di questo è anche il legame che si è stabilito con preti che, dopo il loro studio o servizio in diocesi, sono ritornati al loro paese di origine. Dunque motivazioni ecclesiali: la chiesa è unica, nessuno è autosufficiente, nessuno è così ricco da non aver bisogno anche della diversità dell’altro. La chiusura significa soffocamento e aridità, significa stanchezza e perdita di futuro. Significa impoverimento su standard ormai stanchi e incapaci di affrontare le nuove sfide.
Certo l’Africa non ha tutto, non è tutto perfetto o brillante, non è un cristianesimo adulto, ma proprio per questo può dirci ancora una parola nuova e di speranza. «Dobbiamo incontrarci – conclude mons. Zecchin – Dobbiamo conoscerci, condividere speranze e progetti. Per questo forse rimane ancora tanto da fare. Ad esempio non siamo ancora giunti a uno scambio a livelli intellettuali, di scuole, di seminari, di professori nostri nei loro seminari e di loro professori nei nostri atenei e seminari (almeno per certe cose...). Se l’enunciato del Vaticano II afferma che il prete è consacrato per la chiesa universale, e questo è valso a giustificare anche la partenza dei preti fidei donum, deve valere anche per i preti di altri continenti. È un processo irreversibile, con le sue dovute cautele e regole. Ma inevitabile, per essere chiesa vera».