I cristiani di Terra santa: «Una testimonianza difficile». intervista a Margaret Karram
Insignita del premio Mount Zion 2013, Karram è uno dei volti più rappresentativi dell’impegno per la pace. Scelta maturata dopo un’infanzia di odio e discriminazione ad Haifa. Per la prima volta a Padova, per incontrare i membri veneti del movimento dei Focolari di cui fa parte, dice: «A cambiare il mondo sono i piccoli gesti»
Negli occhi, Margaret Karram, ha l’immagine nitida dell’edicola del Santo sepolcro, nel cuore di Gerusalemme, appena restaurata.
«È un evento miracoloso – commenta senza mezzi termini – Tutt’altro che un fatto simbolico. Toccare con mano le divisioni tra cristiani nel gestire un luogo così centrale per la fede ha sempre rappresentato un grande dolore. Ognuno con i suoi spazi, ognuno i propri momenti di preghiera: ortodossi, cattolici, copti, armeni, luterani sembravano non voler mutare uno status quo in vigore da secoli».
E invece, lo scorso 22 marzo, l’apertura di questo piccolo edificio che custodisce la tomba di Gesù, al cui recupero ha partecipato anche il re Abdallah di Giordania, ha rappresentato un messaggio di unità per tutto il mondo, non solo cristiano.
«Nonostante si lavori da molto tempo dietro le quinte per il dialogo, anche tra leader religiosi, il cammino verso la comunione rimane lungo. Ma la strada dell’impegno al rispetto reciproco, pur nelle differenze, è imboccata».
Di passaggio a Padova per una serie di incontri fra Treviso e Verona con i membri del movimento dei Focolari di cui fa parte, Margaret Karram, araba cristiana di Haifa, l’unica donna ad aver dato voce alla preghiera nello storico incontro di due anni fa in Vaticano tra papa Francesco, Abu Mazen, Shimon Peres e il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, si illumina di fronte ai segni di pace e dialogo presenti nella “sua” martoriata Terra santa.
Buone notizie che spesso non trovano spazio nei giornali e in tv, ma che pure rendono l’idea anche del suo costante impegno per la pace, riconosciuto tra l’altro con il prestigioso premio Mount Zion 2013 per la riconciliazione.
Margaret, da dove nasce questo suo desiderio di impegnarsi per la pace?
«Sono cresciuta in Galilea, cristianamente. I miei genitori hanno educato me e i miei fratelli in un ambiente di fede improntata al vangelo. I nostri vicini ebrei ci isolavano e ci deridevano. Non comprendevo questo ambiente di odio, nel quale anche noi sentivamo loro come nemici. Non ne potevo più di provare l’ingiustizia sulla mia pelle, in quanto palestinese, e di sentirla nelle storie di olocausto di molti ebrei. Due popoli che continuavano a coltivare odio, amplificato dalla continua sensazione di paura, e a costruire muri, soprattutto nei cuori. Sentivo che da grande dovevo far qualcosa per cambiare quella società».
Qual è stata la chiave di volta?
«A 14 anni ho conosciuto il movimento dei Focolari. Per me è stata una scoperta: la vita del vangelo non era solo essere buoni e andare alla messa, ma era una rivoluzione. Ho compreso che vivendo la vita del vangelo concretamente potevo realizzare questo mio desiderio, ma non cambiando le persone, bensì cambiando il mio occhio, amando ogni altra persona, abitata di Dio, e da lì iniziare a costruire relazioni».
Siamo alla vigilia della Colletta del venerdì santo. Come vivono i cristiani oggi attorno ai luoghi santi?
«È una situazione di precarietà, di minoranza: i cristiani sono solo il 2 per cento della popolazione di Israele, e sono divisi nelle varie confessioni. Si tratta di una testimonianza cristallina, ma tutt’altro che facile. La situazione politica non permette di vedere un futuro per i propri figli: la prospettiva è scoraggiante. Ma il grande aiuto che ci viene dalle chiese nel mondo, e in particolare da quella italiana, dà ai cristiani il coraggio di rimanere. È una questione di risorse, ma anche di appartenenza: tutti i numerosi pellegrini si sentono cittadini della Terra santa».
I cattolici fanno abbastanza per questo?
«L’impegno dei francescani della Custodia e del Patriarcato, di cui è amministratore padre Pizzaballa, sono fondamentali. Ma occorre fare unità anche con i greco-cattolici e i siro-cattolici. E non solo nella liturgia, ma anche nelle azioni sociali».
Le notizie che giungono dalla Terra santa sono spesso tragiche, ma lei racconta che nella società ci sono germi di bene che vanno custoditi.
«Esattamente. Il popolo fa molto, sia come chiesa, ma anche tra gli ebrei e i musulmani. Penso al Parents circle, un’organizzazione che unisce familiari di vittime del conflitto israelo-palestinese di tutte le fedi. Sono 200 persone che si visitano a vicenda, entrano nelle scuole per raccontare la loro esperienza di comunione, rispetto e amore. Ma penso anche ad alcuni progetti che abbiamo promosso tra i 12-14enni come movimento: una decina di ragazzi delle tre fedi, che non si erano mai visti prima, insieme per un anno, in dieci incontri. Al termine si sono create delle relazioni fraterne».
In questi giorni è a Padova per la prima volta.
«Visitando la basilica del Santo, pensavo ad Antonio, anche lui impegnato per la pace nel suo tempo. La sua è una grande lezione: ognuno di noi può testimoniare la pace, giorno dopo giorno. Sono i piccoli gesti che fanno la differenza e possono cambiare le cose. In grande».