«Ho servito tre papi straordinari. Ognuno a modo suo». Intervista a padre Lombardi
Lui, padre Federico Lombardi, può davvero dire «i miei papi»: ne ha serviti tre, molto da vicino. E può anche dire quanto sia vera e incarnata anche nei pontefici l'espressione “unità nella molteplicità”: Giovanni Paolo II era diverso da Benedetto XVI, che non assomiglia a Francesco. Ma tutti hanno camminato lungo l'unico solco di Cristo. E per ciascuno ha un ricordo, un aneddoto, una riflessione a partire dal loro peculiare modo di comunicare.
Lui, padre Federico Lombardi, può davvero dire «i miei papi»: ne ha serviti tre, molto da vicino.
E può anche dire quanto sia vera e incarnata anche nei pontefici l'espressione “unità nella molteplicità”: Giovanni Paolo II era diverso da Benedetto XVI, che non assomiglia a Francesco. Ma tutti hanno camminato lungo l'unico solco di Cristo. Eppure la sua storia di “comunicatore dei papi” parte da premesse che con la comunicazione c'entrano poco. 74 anni, piemontese di Saluzzo, studente modello al liceo, Federico si laurea in matematica. E al contempo matura la vocazione al sacerdozio.
Lei era un giovane matematico, ma in famiglia c'era un antefatto illustre...
«Beh, sì, è vero: lo zio Riccardo (padre Riccardo Lombardi, 1908-1979, ndr), il “microfono di Dio”: a suo tempo lo sapevano tutti, adesso non lo conosce più nessuno. Ma lui era un grande comunicatore, un predicatore; io sono semplicemente un servitore di altri che comunicano. In effetti, da giovane non avevo la minima idea che avrei lavorato nella comunicazione. Quando facevo teologia in Germania, nei primi anni '70, lavoravo moltissimo con gli emigrati italiani».
Come mai?
«Perché erano tantissimi e io, da studente di teologia, volevo fare qualcosa con loro. E così iniziai a fare catechismo ai ragazzi, visite alle famiglie... dedicavo moltissimo tempo a questa cosa, forse più che alla teologia. Un giorno passò per Francoforte un gesuita della Civiltà cattolica che doveva seguire il sinodo delle diocesi tedesche. Mi chiese di fare qualche articolo per la rivista. E io gli risposi che l'unica cosa che aveva senso scrivessi era la realtà degli immigrati italiani, dal punto di vista sociale e spirituale. E così feci due articoli. Alla Civiltà cattolica li apprezzarono e così, quando terminai teologia e stavo per andare a insegnare filosofia della scienza a Gallarate, i superiori mi deviarono lì. Ci sono stato dodici anni, anche da vicedirettore. Poi ci fu un intervallo, perché dal 1984 al 1990 fui chiamato a fare il Provinciale dei Gesuiti in Italia».
E la comunicazione?
«Torna nel 1990, quando il direttore dei programmi di Radio vaticana si ammalò e c'era bisogno di qualcuno che lo sostituisse. La radio per me era però completamente nuova: ero abituato a fare articoli di quindici pagine, lì dovevo fare servizi di un minuto. Ma ho sempre avuto l'idea che per comunicare bisogna avere delle idee chiare e cercare di formularle ordinatamente; il linguaggio specifico lo impari poi».
Poi arriva anche il Centro televisivo vaticano e nel 2006 si aggiunge la sala stampa: in quel caso sarà stato il papa a dire «venga padre Lombardi»...
«Sì e no. Io, per il mio lavoro, ero in fortissimo rapporto con la Segreteria di stato più che personalmente con il papa. Quindi la proposta del mio nome immagino che non sia venuta di iniziativa di Benedetto, ma che io sia stato proposto a Benedetto pensando a una persona che già conosceva la realtà della comunicazione vaticana e in cui ci fosse fiducia. D'altro canto, non ha senso andare a cercare in America un gran giornalista, facendolo piovere dal cielo quando non conosce la realtà vaticana. Inoltre credo che il card. Sodano (allora Segretario di Stato, ndr) fosse rimasto positivamente impressionato su come mi ero esposto con pazienza sulla questione delle onde elettromagnetiche di Radio vaticana».
Benedetto ha detto e scritto cose straordinarie, ma dal punto di vista del fascino comunicativo, rispetto al grande pubblico, non ha avuto successi enormi. Lei gli ha suggerito come muoversi nella comunicazione?
«No. Io ho vissuto il mio compito come un servizio a quello che il papa è e a quello che il papa sa fare. Nessuno mi ha chiesto di inventare la comunicazione del papa. Benedetto era una persona di cui tutti avevamo una stima e un'ammirazione infinita dal punto di vista culturale e intellettuale, per cui eravamo anche rispettosi. Forse fin troppo, specie all'inizio».
Fin troppo in che senso?
«Per esempio, il famoso discorso di Regensburg, che scatenò polemiche, era un meraviglioso discorso accademico. A me, che avevo preso servizio da poche settimane, di fronte a Ratzinger che fa un bellissimo discorso, non è passato neanche per la testa di dirgli qualcosa. Poi è stato lui stesso, dopo, riflettendo, a dire: “Forse non avevo pensato a sufficienza che un discorso pubblico del papa ha una sua dimensione politica, oltre che culturale”. Cioè che ci potevano essere delle conseguenze o interpretazioni non sufficientemente valutate».
Dopo quest'episodio, lei l'ha messo sull'avviso in qualche situazione?
«No, ribadisco: mi sono sempre considerato un servitore e uno che cerca di valorizzare il carisma specifico del papa, più che uno che va a insegnargli che cosa deve fare. In Benedetto la linearità, la profondità e la chiarezza del discorso erano totali. E questa è già comunicazione in sé. Comunicazione non è il discorso dialogato davanti a un milione di giovani: è anche fare un discorso concettuale facendo emergere idee profonde».
Però un papa è chiamato anche a interloquire...
«Lui sapeva anche interloquire; però, ecco, forse su questo ci si poteva aspettare qualcosa di più dalla sua capacità di rispondere alle domande. Come professore anche in questo era fantastico, apertissimo. E un po' l'ha fatto anche da papa. Ma preferiva fare le cose in modo più sistematico. Da ciò è nato il libro intervista, con un interlocutore che l'ha seguito per un lungo percorso di pensiero».
E le interviste con i giornalisti, in aereo, durante i viaggi?
«Avevo elaborato il metodo che mi pareva più adatto per lui: cioè il chiedere prima delle domande per selezionarne le più interessanti. Non per censura: non ho mai cancellato le domande più difficili; però sceglievo quelle che potevano interessare di più a tutti i giornalisti, non quelle particolari tipo “Ma lei verrà nel mio paese?”. Gliele dicevo prima ma non è che lui si preoccupasse: era bravissimo, semmai, a raccogliere le idee a a esprimerle. Per cui in un quarto d'ora Benedetto rispondeva a cinque domande e forniva una quantità di concetti densi, ricchi, precisi».
Mai una sbavatura?
«Una volta gli è sfuggita l'espressione che il preservativo peggiora la diffusione dell'Aids (durante il viaggio in Camerun e Angola, nel 2009, ndr); e quel “peggiora” è stato un disastro. Ma in tutti gli altri 25 viaggi ha fatto benissimo. Il suo dono è nei contenuti, nella concisione, nella chiarezza».
Le è mai capitato di valutare insieme con il papa gli esiti del suo comunicare?
«Sì. Come già si faceva con Giovanni Paolo II, dopo ogni viaggio il papa incontrava i collaboratori che si occupavano di comunicazione per fare il punto su com'era andata. Eravamo il papa, io, il direttore dell'Osservatore, un responsabile per la radio. E Benedetto ci sollecitava: “Dite dite...”. Lui voleva rifletterci, la sua disponibilità c'era, ma sapeva anche cosa sapeva fare e cosa no».
Per esempio?
«Le veglie con i giovani: non amava gli applausi, che lo interrompevano nel filo del discorso che stava facendo. Giovanni Paolo II e ancor di più Francesco invece, vivono del dialogo. Tu dici una cosa, chi ascolta reagisce; anzi, loro provocano una reazione, che è una cosa bellissima. Ma Benedetto no: voleva dire il suo pensiero. E ne valeva la pena. Sarebbe stato un controsenso dire a Benedetto, fatto com'era, di fare una battuta».
Le è mai capitato, magari dopo la conversazione in aereo con i giornalisti, di dire a Francesco: adesso speriamo bene...?
«Una volta sola: quando ha detto che non è bene fare figli come i conigli. E lui l'ha capito subito. Ma Francesco può contare su una premessa positiva talmente forte che una svista ci può stare. Per Benedetto è stato meno facile».
Cosa c'è di positivo, ma anche di rischioso, nell'atteggiamento di quasi unanime simpatia che i media hanno per Francesco?
«C'è certamente un grande entusiasmo per la persona nuova, che cambia certe modalità di comportamento. Però c'è anche una grossa componente sostanziale di comprensione della sua vicinanza alla gente e alla vita, una vicinanza piena di attenzione e misericordia. Questo messaggio l'ha innestato nel giubileo, ma l'ha detto fin dai primi giorni di pontificato: cioè che Dio ti ama, ama tutti, è misericordioso, è padre... E che bisogna essere solidali con i poveri, oltre le divisioni. Questo mi pare sia capito nella sostanza, aldilà delle curiosità o delle simpatie superficiali. Questo per la chiesa e per me è un grande dono e i media in questo senso sono i tramite, i megafoni: la gente comune è contenta di lui che abbraccia un malato spaventoso e dice: questo è l'amore cristiano... Francesco lo fa con una fisicità e una spontaneità straordinarie... E poi elimina papamobili e blindati, e questo la gente lo capisce. Come qualità individuale non penso sia molto diverso dagli altri papi, ma come efficacia di manifestazione per un popolo Francesco è straordinario».
C'è qualche pericolo?
«Il pericolo principale, per me, è una concentrazione eccessiva sulla figura del papa. Concentrazione che lui non vuole: lui dice “viva Gesù”, non “viva il papa”. Ma il papa è dappertutto e il resto delle dimensioni della chiesa rischiano di essere un po' ombreggiate. Illuminate da lui ma ombreggiate. Francesco vuole portare la chiesa a uno stile nuovo; ma la logica dei media non facilita davvero questo cambiamento, portando l'attenzione sempre sul picco di visibilità. È anche il limite della rete: grande libertà e condivisione, ma poi vanno tutti a vedere solo il papa che libera le colombe. Ecco, questo è un pericolo».
Giorgio Malavasi