Confessioni laicali. Non spegniamo la luce sul lavoro
In ascolto di lavoratori e disoccupati. Il lavoro resta il primo problema e il primo pensiero per molti. E allora come sarebbe bello, nei gesti ordinari della comunità, creare tempi dedicati all’accoglienza e all’ascolto di lavoratori, imprenditori, disoccupati, quali portatori di una parabola del Regno! Il pensiero di Stefano Bertin, vicepresidente del consiglio pastorale diocesano.
La notte di San Silvestro è anche l’occasione per stare con persone che da tempo avevi perso di vista. All’inizio della serata si parla del più e del meno, poi verso la mezzanotte, un po’ l’atmosfera e un po’ il vino, i discorsi si fanno più confidenziali. Dopo una premessa sulla salute, si vira decisi dove il dente duole. Giorgia racconta come, dopo vent’anni, ha chiuso la sua attività in proprio per andare dipendente in una ditta del settore: accontentarsi di un reddito più modesto, piuttosto di una vita senza orari e piena d’ansia, da non dormirci la notte.
Ribatte Luigi, che invece ha intenzione di mettersi in proprio, perché dove lavora da più di un decennio viene sfruttato e sottopagato. Il clima si raffredda alquanto quando Mauro, reduce da un licenziamento precedente, confessa che la cooperativa non gli ha rinnovato il contratto, e a sua moglie hanno comunicato che difficilmente avranno un posto per lei, dopo la maternità.
Prima della mezzanotte, per non trovare le linee intasate, Giulia fa gli auguri via Whatsapp al figlio che sta tentando fortuna in Australia, mentre Francesco denuncia amaramente la situazione di sua figlia: 26 anni, 110 con lode in farmacia e lavoro precario a 500 euro al mese.
Sono solo alcune storie di quotidiana precarietà.
Storie che ci ricordano, a dieci anni dall’inizio della crisi, che il lavoro rimane per tanti (troppi) un problema.
È quindi necessario continuare a parlarne. Non è un argomento tra i tanti, che dopo un po’ viene a noia, ma il tormento quotidiano di persone concrete che vivono il disagio, a volte la disperazione, di dover affrontare una situazione ben lontana dal lavoro «libero, creativo, partecipativo e solidale» evocato come diritto di ciascuno nell’Evangelii Gaudium (n. 192).
L’esperienza del lavoro va riposta al centro dell’agenda sociale, politica ed ecclesiale. Avendo ben chiaro qual è il suo valore e la sua cifra, e quindi sapendo discernere e denunciare le distorsioni e i tradimenti. La posta in gioco è alta, lo attesta la nostra Costituzione, che settant’anni fa ha posto il lavoro, in modo inequivocabile, quale fondamento della Repubblica.
In questi anni, in ambito ecclesiale, abbiamo visto un provvidenziale fiorire di iniziative rivolte ad aiutare chi veniva colpito dalla crisi: uno per tutti, il Fondo straordinario di solidarietà per il lavoro. Così come si sono svolti importanti appuntamenti di riflessione e proposta: li riassume e li rilancia tutti l’ultima Settimana sociale dei cattolici a Cagliari. Proprio in questa occasione, però, si è posto l’accento sulla difficoltà di far entrare queste problematiche nel vissuto ordinario delle nostre comunità parrocchiali.
«La vita delle nostre comunità – ha esortato mons. Filippo Santoro – non può limitarsi alla catechesi, liturgia, processioni e benedizioni! La pastorale sociale, dunque, ritrovi i giusti spazi e piena dignità nelle comunità cristiane. Da figlia di un dio minore, diventi la cartina di tornasole della passione formativa e caritativa. È vangelo che si fa carne».
Ci viene chiesto, a livello personale e comunitario, una conversione profonda verso questo luogo di vita, abitato dal Signore. Come sarebbe bello, nei gesti ordinari della comunità, creare tempi dedicati all’accoglienza e all’ascolto di lavoratori, imprenditori, disoccupati, quali portatori di una parabola del Regno. Magari di domenica, per non scordare che ogni eucarestia è possibile anche perché c’è il pane e il vino, frutti della terra e del lavoro dell’uomo.
Stefano Bertin