Padova verso il voto: «Governare l’emergenza sociale non basta più»
Prima puntata del viaggio della Difesa tra i grandi temi della campagna elettorale e del futuro di Padova.
Al centro, le politiche sociali. «Crei ricchezza se hai fiducia, coraggio di investire, se ti avvali delle capacità di tutti. Una ricchezza paurosa, produce separazione e violenza. La paura, se coltivata, rende consenso ma genera violenza»: Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione Zancan, indica nel welfare generativo lo strumento che consentirà anche a Padova di uscire dalla crisi. Ma servono vere politiche sociali, non soluzioni assistenziali.
La fondazione Emanuela Zancan si occupa di welfare da molto tempo.
Negli ultimi anni si è concentrata in particolare sul “welfare generativo” anche perché «gli oltre 50 anni di ricerca ci hanno messo a disposizione una fonte originale di pensiero sulla programmazione sociale», come recita la presentazione del suo ultimo rapporto. Su questo, pensando al futuro di Padova, il direttore Tiziano Vecchiato ha le idee chiare.
Welfare generativo, come lo possiamo applicare alla nostra città?
«Padova è una città che non mai avuto negli ultimi 15, forse 20 anni, delle autentiche politiche sociali. La mia non è una critica, ma un dare il nome alle cose per quello che rappresentano: il comune di Padova, come la generalità dei comuni, ha avuto politiche assistenziali, il che significa organizzare la filiera dell’assistenza e fare in modo che sia ben amministrata, evitando gli sprechi e facendo in modo che i soldi, e le risposte, arrivino a chi ha bisogno. Insomma, il classico welfare tradizionale del quale oggi non abbiamo più bisogno. Il salto di qualità che Padova dovrà fare è passare dall’amministrare l’assistenza sociale al governare le politiche sociali».
La diminuzione delle risorse disponibili, che ruolo gioca nel sociale?
«Che ci siano meno risorse, o che si creda che ci siano meno risorse, può essere di grande aiuto per raggiungere questo cambio di mentalità. I nostri conti e le analisi ci dicono che a Padova in una decina d’anni siamo scesi da 4 milioni e 800 mila euro a 4 milioni da destinare all’assistenza sociale, quindi c’è stata una regressione al netto dell’inflazione. Si potrebbe disquisire che, dati i tempi, il calo non è particolarmente significativo, ma invece è tantissimo perché in tempo di crisi la domanda sociale si triplica, si quadrupla, e quindi il comune è rimasto al palo, disarmato di fronte a emergenze che riguardano la cittadinanza, il tessuto profondo della socialità di Padova. Nel frattempo abbiamo visto con i Cantieri di carità e giustizia che le stime di capacità della città di essere solidale nei confronti dei poveri ha per ora un prudente equivalente economico che vale 3 milioni e mezzo. Questo significa che la città sarà l’azionista di maggioranza delle nuove politiche sociali se la nuova amministrazione saprà interpretare questa sfida e orchestrare al meglio le capacità di Padova».
Una città solidale quindi?
«Di più. Una città che va incoraggiata a cogliere fior da fiore tra le innovazioni che la solidarietà riesce a mettere a disposizione. Per esempio, molto dello sforzo in atto oggi viene utilizzato per aiutare chi è in emergenza. Si risponde a un bisogno di aiuto che accompagna a uscire dalla condizione critica. Questa è una fase che dovrà essere superata perché oggi c’è uno sbilanciamento delle capacità della città che fa bene la prima fase, rispondere al bisogno, e meno la seconda, aiutare a uscire dalla condizione critica: va riconvertita la produzione. Occorre che non sia solo beneficenza, perché la carità è molto più esigente: o si decide di credere in ogni persona, anche quella che non sembra poter dare nulla, oppure sei vecchio.
La nuova amministrazione o saprà cogliere e interpretare questa sfida o continuerà in una politica assistenziale e questo contribuirà alla recessione della città non solo nei bisogni primari, ma anche nella mentalità, con una regressione sociale. Perché Padova dovrebbe condannarsi a questo?
C’è un pezzo di città in grado di aiutare, ma questo non può bastare. Occorre che l’amministratore del “condominio solidale” che si chiama comune, a cui vengono affidati i proventi della solidarietà fiscale e che attualmente sono destinati all’assessorato che ha maggiore competenze in materia, interpreti queste risorse non come trasferimento ma come investimento, come valorizzazione delle capacità. E bisogna farlo insieme, con rispetto. Basta logiche proprietarie: non ce n’è bisogno e delegittimano l’istituzione che agisce così.
Sei l’amministratore del bene comune, in quota parte te lo affido, ma in quota parte ne è proprietaria la città. In questo contesto la provocazione dei Cantieri di carità e giustizia vale molto perché non è un’azione di contrasto alla povertà, di inclusione dei poveri, ma simbolicamente è molto di più: è una chiamata a riconciliare la città con i propri problemi».
Padova è una città ricca?
«La nostra è una città ricca, ma è associata alla paura. Crei ricchezza se hai fiducia, coraggio di investire, se ti avvali delle capacità di tutti perché nessuna impresa cresce senza le capacità di chi ci lavora. Una ricchezza paurosa invece, produce separazione e violenza e incoraggia la violenza in chi amministra. La paura, se coltivata, rende consenso ma genera violenza».
Come si cambia?
«Una città che passa dalle politiche assistenziali alle politiche sociali deve oltrepassare la logica dei diritti senza doveri e questo significa che sul piano etico ogni persona ha il diritto-dovere di contribuire al bene di tutti. Non è facile, ma con il welfare generativo il valore si moltiplica: per un’ora dedicata a te, tu offri altre ore agli altri. Quello che ricevi non è soltanto per te e se tu non lo metti a frutto, io comune non ti do' il beneficio. All’anziano cui consegno il pasto chiedo cosa sa fare e lui mi darà in cambio quello che sa. Si crea uno scambio che ti fa bene perché senti ciò che sei: non c’è più l’aiutante e l’aiutato. Nell’idea più profonda dei diritti e doveri c’è anche una maggiore attenzione all’altro, che si traduce in un rapporto: non è la comunità di una volta, ma sei il prossimo.
Ci vuole un assessorato allo sviluppo sociale che dica basta prestazioni. Il welfare che conosciamo dà ai cittadini il 90 per cento in prestazioni e il 10 in servizi: si deve arrivare al 50 e 50, rinunciando al rapporto di potere con l’aiutato. E dovrò amministrare il beneficio: entrate, uscite, rendimento e capacità rigenerative. Nell’arco di un’amministrazione i risultati si vedono».