"Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime". La dottoressa che dà un nome ai mille morti della strage di Lampedusa
Una strage: circa mille morti il 18 aprile 2015 nel Mediterraneo fra Lampedusa e la Libia. La stessa del 3 ottobre 2013, catastrofe in cui persero la vita centinaia di eritrei. Identica a tante altre che ancora si ripetono nello stesso braccio di mare.
Cristina Cattaneo, 55 anni, professoressa di Medicina legale all’Università di Milano, dirige dal 1995 il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense (Labanof) e su mandato del Commissario straordinario per le persone scomparse del Ministero dell’Interno lavora all’identificazione delle vittime.
Con il suo ultimo libro Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime (Raffaello Cortina Editore, pagine 198, euro 14) – che a settembre uscirà in Francia - è entrata nella cinquina del Premio Galileo 2019.
Perché l’identità delle persone non muore mai?
Per mille motivi. L’identità è quello che siamo stati, è il ricordo, ma è anche in quelli che sopravvivono. In questo senso non muore mai. Con i colleghi delle 12 Università italiane che hanno aderito alla ricerca per identificare le vittime, sappiamo bene che dare un nome a questi morti è molto importante. Non solo da un punto di vista etico. Per le vedove, gli orfani, i genitori ci sono tutta una serie di questioni amministrative che restano congelate, se mancano i documenti che attestano la morte di un congiunto.
Professoressa Cattaneo, con il suo staff ha passato l’ultima estate dentro Sant’Ambrogio a Milano. Che risultati avete acquisito?
Per tre mesi abbiamo spostato il laboratorio nella cripta della basilica per studiare i tre scheletri dei santi. E’ stata un’esperienza unica da tutti i punti di vista. Dal punto di vista umano, abbiamo lavorato vicino alla Diocesi con i loro architetti. Devo dire che le sorprese più grosse le hanno riservate i fratelli Protasio e Gervasio, perché di sant’Ambrogio già si sapeva molto. I fratelli, invece, al termine del nostro lavoro sono risultati proprio essere i ventenni, altissimi di statura, di cui uno decapitato e molto simili fra loro, forse perfino gemelli. Ambrogio lo diceva, ma molti storici avevano etichettato il suo racconto come una versione inventata. Al contrario, il riscontro c’è stato. Per le ossa del patrono di Milano si tratta di un’ulteriore conferma. E ora sappiamo anche che Gervaso e Protasio morirono di morte violenta per aver difeso la loro fede.
Torniamo ai migranti senza nome, qual è stato un episodio emblematico?
Non dimenticherò mai il corpo di un ragazzo del Gambia. Aveva cinque documenti in tasca, fra cui la tessera di una biblioteca e il tesserino da donatore di sangue. Dalle tasche è affiorato un po’ di tutto: cellulari, fotografie, schede telefoniche e altri oggetti di vita quotidiana. Testimoniano come i migranti non sono certo un numero. Hanno esistenze, storie, affetti che somigliano proprio alle nostre.
Un’impresa straordinaria in nome dei diritti umani: dal 2015 continuate una ricerca certosina…
L’attività scientifica toglie un sipario. Con mille vittime, le scienze giuridiche sostengono che si può investire nell’identificazione se serve per una causa che finirà in tribunale. Ma se non c’è motivazione giuridica oppure se il caso è già chiuso, l’obbligo di procedere non esiste più. E in questo caso, i criminali scafisti erano già stati arrestati. Tuttavia il mondo scientifico ha creato una rete per effettuare le autopsie: tutto si è messo a posto come per miracolo, con 80 persone impegnate per tre mesi. La Marina Militare ha creato un obitorio sul mare, i Vigili del fuoco hanno aperto la stiva del barcone recuperato e la Croce Rossa ha messo a disposizione enormi camion frigo. Su 528 corpi interi è stata eseguita l’autopsia e sono stati sepolti. Oggi al Labanof abbiamo conservato circa 20 mila resti ossei commisti che nel tempo potranno essere attribuiti. Fondi permettendo…
Da scienziata, chi glielo fa fare?
Credo che il diritto all’identità e il ricongiungimento dei vivi con i morti siano diritti umani fondamentali, sanciti da molte leggi quanto dalle convenzioni internazionali. E che si tratti di persone con la pelle chiara o scura non ha nessuna importanza. Ricordo bene la donna che aveva viaggiato da Stoccolma per il fratello di cui non aveva più notizie. Le ho mostrato i volti dei cadaveri, ma non l’ha riconosciuto. Ha chiesto di vedere anche gli effetti personali recuperati: così ha riconosciuto la calligrafia del fratello. Aveva appuntato il suo nome insieme al numero di telefono svedese.
A Melilli (Siracusa) il barcone della strage è sempre lì…
Rappresenta un simbolo. Come Binario 21 alla stazione centrale di Milano, che ci ricorda la deportazione degli ebrei. Oppure lo scheletro del Dc-9 a Bologna, nel Museo per la memoria di Ustica. Quell’imbarcazione azzurra ospitava anche decine di ragazzi stesi nella sentina, che è la parte più bassa dello scafo dove si raccolgono scoli e infiltrazioni. Ecco, temo che magari fra 50 anni nessuno ricordi più che nel Mediterraneo c’era gente costretta a viaggiare nello stesso modo delle navi negriere di un’altra epoca.