Influencer, un concetto da riabilitare in Italia
La parola influencer, in tutto il mondo, ha un significato prettamente tecnico.
È una figura, con volto, nome e cognome, in grado di veicolare attraverso la sua immagine e la sua presenza digitale narrazioni, messaggi e, appunto, influenze. In Italia, invece, forse per qualche pandoro benefico rimasto indigesto dalle feste, forse per una cultura ancora poco avvezza al digitale, influencer è una parola che non si può dire. Troppo connotata di valori negativi per essere pronunciata in consessi civili. Ridotta alle ragazzine che vendono creme su Instagram o ai truzzi che campano di serate in discoteca. Un esempio. Nell’agosto scorso, durante la Giornata mondiale della gioventù di Lisbona, il sottoscritto ha partecipato a una messa e a un festival – benedetti dal Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede – dedicato agli influencer cattolici. Figure – per lo più appartenenti alla sfera latino americana – di preti, religiosi, laici che da anni impiegano i mezzi digitali non solo per annunciare il Vangelo, ma anche per ascoltare le voci vicine e lontane, tanto da aver fatto parte, anche con un rappresentante in carne e ossa, suor Xiskya Valladares, all’assemblea sinodale dell’ottobre 2023. Le uniche voci polemiche – sui giornali e sui post sui social – si sono alzate in Italia. E si sono alzate più per l’impiego del termine influencer che per negare il fatto che l’evangelizzazione, oggi, non possa fare a meno del web. Non solo come strumento, ma proprio come ambiente nel quale tutti siamo immersi. Non è un caso se il nucleo di influencer/content creator, riunitosi a Roma a settembre, ha scelto di privilegiare il termine “evangelizzatori” o “testimoni digitali” per classificarsi d’ora in avanti. Per evangelizzare la mera “influenza” non basta, serve la testimonianza. Una testimonianza che richiede il coinvolgimento di tutta la persona, dalla carne ai bit.