21 ottobre 1917: la donna cambia, anche l’abito
Non c’è dubbio che una delle “ossessioni” della Difesa negli anni della Grande guerra (e non solo) fosse rivolta alla tutela del buon costume, con particolare riguardo ai nuovi atteggiamenti del mondo femminile. Questo centenario ha posto molta attenzione al ruolo della donna, coprotagonista del conflitto accanto all’uomo combattente e fatalmente destinata a veder mutare il proprio ruolo sociale. Ma fuori dalle mura domestiche, i pericoli per la morale sono evidenti...
Il lungo periodo bellico ha rappresentato per una categoria sociale ancora sotto pesante tutela maschile nella società patriarcale, l’occasione di mostrare quanto fosse capace di assumere ruoli significativi in tutti i campi, non solo in quelli a lei tradizionalmente assegnati.
Un protagonismo che anche il settimanale diocesano ha a più riprese evidenziato e incoraggiato. Anzitutto sostenendole nel ruolo di madri e di mogli, reso più pesante dalla guerra (“La donna italiana nell’ora presente”, 6 luglio 1915).
Quindi nell’incoraggiare le iniziative del fronte interno, che vedevano i comitati femminili prodigarsi per confezionare vestiti di lana, scaldarancio, zanzariere, perfino indumenti antiparassiti per i soldati in trincea (solo un esempio: “Comitato femminile per procurare indumenti di lana”, 5 settembre 1915). L’assistenza ai soldati raggiunse il culmine nelle diecimila infermiere volontarie accorse sotto l’egida della Croce rossa e d’altre associazioni a soccorso dei feriti nelle immediate retrovie, in treni ospedale e ospedali militari. Anche qui non mancano gli articoli di plauso.
C’è poi il ruolo ricoperto dalla manodopera femminile in sostituzione degli operai chiamati alle armi.
Le donne contadine, con l’aiuto di pochi uomini anziani o giovanissimi, devono occuparsi della lavorazione e della conduzione dei campi. Ma lavoratrici vengono impegnate anche nelle fabbriche tessili e manifatturiere, nelle aziende produttrici di materiale bellico, nelle miniere e nei compiti fin qui spettanti solo agli uomini, come nei trasporti, nell’amministrazione, nei servizi pubblici.
Sebbene ancora in condizioni di inferiorità le donne acquisiscono e gestiscono un loro reddito.
Non è raro il caso di giovani di famiglia contadina che vanno a lavorare in città sottraendosi alla tutela paterna.
È chiaro che questi nuovi ruoli, aldilà di alcune riserve sull’opportunità che le donne facessero i barbieri (Difesa, 26 novembre 1916) o altri mestieri “sconvenienti”, non potevano non riverberarsi sui costumi: le lavoratrici assumono abitudini “maschili” come uscire da sole, guidare, fumare o frequentare locali pubblici. E poi la moda: tutte gli studi specializzati rilevano la “liberazione” del corpo femminile già iniziata all’inizio del Novecento. Basta busti e corpetti, basta con gli strati di sottovesti, basta cappelli con le piume. Le gonne e le maniche si accorciano, i colletti si allargano, arrivano i tailleur, compaiono le tasche, i colori si fanno meno squillanti.
La divisa militare, il grembiule contadino o quello dell’infermiera diventano punti di riferimento anche per la moda borghese, ovviamente depurate della loro grossolanità.
Queste tendenze non potevano non essere interpretate in termini negativi da ambienti conservatori in tema di morale come quello cattolico.
Ecco allora il biasimo per gli stinchi, i petti, le braccia sottoposti «agli sguardi curiosi di tanti che passano». In genere il settimanale stigmatizza la frivolezza delle donne borghesi, di quelle che possono permettersi di spendere in vesti raffinate anche quando il loro costo è triplicato.
Ma è significativo un articolo comparso il 17 ottobre 19197 in seconda pagina, intitolato “Il lusso delle operaie”. Qui si parla di operaie, di dattilografe, di contabili, di “contadinelle profumate” che «gareggiano nel lusso con le signore», che vanno al lavoro «mal reggentesi sui tacchi alti e sottili di scarpette inverosimili ed acconciate come tante comparse d’operetta», di «parecchi abiti di seta cortissimi ed i fratellini minori giocano nella strada scalzi, arruffati, sporchi come gli zingari».
È evidente che, sotto la condanna della moda, c’è una certa percezione di quello che sta avvenendo con la disgregazione del mondo contadino dai valori austeri e consolidati, quello a cui la chiesa faceva da sempre riferimento. D’altra parte la prima guerra mondiale è il primo conflitto di massa e la società dovrà farci i conti. Un altro articolo del 28 luglio 1918 affronta la questione femminile rifacendosi alla scrittrice Matilde Serao, “non sospetta di clericalismo”: «La donna ha cifrato ogni tappa di questo tempo di guerra con una serie di conquiste morali e materiali: ha raggiunto delle sommità che per sempre le parevano interdette. (...) Ma un giorno la guerra finirà. Tornerà dal campo, bagnato di sangue, l’uomo. (...) Che accadrà tra quest’uomo che tutto ha dato, che tutto ha perduto per la guerra e questa donna che tutto ha avuto, che tutto ha preso dalla guerra?».
Abbiamo scritto
Ed una legge s’invoca che non permetta più a chiunque di passeggiare per le vie in abito da camera: che imponga alla donna che non ha pudore il rispetto per il pudore degli altri; che faccia cessare lo spettacolo nauseante che spesso si presenta a chi va per la via di persone che la moda ha saputo soggiogare in maniera da mostrare, velati compiacentemente, stinchi, braccia e petti agli sguardi curiosi di tanti che passano.
Segno di decadenza quello della donna che non è gelosa del proprio corpo le cui grazie non sono create per darle in pascolo altrui: segno d’incoscienza in tempo in cui dei pensieri alti e gravi e non di rado dolorosi che si hanno in mente vorrebbe l’abito essere rivelatore. Se gli abiti avessero oggi a rivelare i pensieri di chi li porta ahimè! che ci sarebbe da disperare nell’avvenire!!
Ma vogliamo credere che non siano segni di leggerezza e di irriflessione come di chi sa di dovere obbedire a una grande tiranna, la moda, e non bada se questa obbedienza porta o no fuori dalla buona strada. Quando si vede il lutto associato alle velature trasparenti ed alle scollature libere bisogna proprio ritenere che siamo davanti a gente che ha perso il cervello o che non l’ha mai avuto. E allora proibisca il governo e metta il calmiere sulle scollature. (...)
Dopo la guerra la famiglia è tutta da rifare e la donna a cui tale rinnovamento è affidato non saprà dedicarvisi se non quando sia abituata al rispetto di sé e a scomparire, quasi, pel bene degli altri.
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