Un libro per entrare nell’anima del volontariato. “#IOSIAMO” ci accompagna nel mondo della sofferenza e di chi cerca di aiutare i meno fortunati
Un libro capace di coinvolgere, non solo perché narra storie vere, ma perché riesce nel difficile compito di uscire fuori dal doppio rischio della retorica e dell’eccessivamente colloquiale.
La realtà è fatta anche e soprattutto di percezioni, perché il mondo ci appare attraverso non solo i nostri organi deputati, ma anche con la mediazione di un io che, come ormai la grande narrativa di primo Novecento andava sostenendo, non è mai lo stesso, cambia costantemente nel corso del suo flusso vitale, per citare Bergson. Abbiamo percezioni dell’altro che mutano sempre, come accade a noi stessi. Prendiamo l’universo del volontariato: la sua percezione cambia da persona in persona, per alcuni è la dimensione di quello che non ha niente da fare, che si annoia perché, beato lui, sta bene economicamente, e magari cerca pure di vincere i suoi sensi di colpa dedicando qualche oretta ai malati o ai poveri; per altri è una realtà “reazionaria” perché supplisce e copre le mancanze dello stato che dovrebbe pensare ai malati, ai diversamente abili, agli emarginati. E non manca chi crede che il volontario venga pagato profumatamente: “prendono un sacco di soldi” sentenziò tempo fa la signora che mi serviva il caffè mentre guardavo, fuori dalla vetrata del bar, alcuni volontari che portavano un po’ di cibo ai senza tetto sotto i portici di una grande città. Non solo, ma cambia anche chi lo fa, il volontariato: quello che magari prima di provare a spingere una carrozzina lo vedeva come un vizio “borghese” per poi non poterne più fare a meno per l’empatia umana che nasce al suo interno, quello che si sente arricchito da ciò che sembrava solo un modo di rendersi utili senza coinvolgimento.
La complessità, l’umanità, la ricchezza del volontariato vengono oggi messe bene in evidenza da un libro, “#IOSIAMO. Storie di volontari che hanno cambiato l’Italia (prima, durante e dopo la pandemia)” (San Paolo, 217 pagine, 19 euro), scritto da Tiziana Di Masi, attrice di “teatro sociale” e Andrea Guolo, giornalista e scrittore. Un libro capace di coinvolgere, non solo perché narra storie vere, ma perché riesce nel difficile compito di uscire fuori dal doppio rischio della retorica e dell’eccessivamente colloquiale e giovanilistico, fatto, come purtroppo capita sempre più spesso, di punti di esclamazione o di sospensione che vorrebbero trasmettere chissà quale sorpresa e stupore. No. Qui non c’è alcun bisogno di trucchetti e banalità del genere, qui è la pelle viva della sofferenza, del dolore, dell’indifferenza e poi della condivisione che parlano da sole, come se le storie vivessero davanti ai nostri occhi senza bisogno di narratore, e questo è ciò che fa un libro che vale davvero.
Storie come quelle della mamma che in ospedale veglia il suo bambino di nove anni e mezzo e che “quando capisce che è arrivata la fine, (…) appoggia la sua bocca a quella di Antonio, raccoglie il suo ultimo respiro e lo tiene dentro”. Perché quel figlio era “l’anima dell’anima” della madre ed è giusto, come dice quella mamma “che la sua anima ritorni in me”. E quella mamma contribuirà a far nascere una Rete di cittadinanza e comunità per tentare di mettere fine all’avvelenamento della Terra dei fuochi, anche attraverso la creazione dell’associazione “Noi genitori di tutti”, un avvelenamento che fa strage anche di bambini.
Anche quando si parla di argomenti meno terribili, i due autori riescono a togliere la fredda retorica del bel gesto al servire -e cucinare, lo fanno cuochi famosi- la cena a chi non può permettersela, quella cena, ma non a tirar via, sbrighiamoci, ma con cibi di prim’ordine, con i “clienti” trattati e serviti da ristorante di lusso, come accade all’Antoniano di Bologna.
Perché quello che emerge da questa narrazione è, come dicevamo in apertura, il cambiamento della percezione non solo del volontariato, ma di chi è costretto ad averne bisogno. Quei vagabondi, quei poveri che dormono per strada, che ti chiedono due soldi o se hai una giacca a vento che non ti serve più, che vanno a mangiare nelle mense per poveri, non sono solo gente scappata con figli al seguito dal cambiamento climatico o dalla violenza o dalla miseria. Non solo “stranieri”, come li considera qualcuno. Molti conducevano una vita fatta di un buon lavoro, una bella casa, macchina, palestra, vacanze. E poi qualcosa non è andata, e capita, soprattutto per chi sceglie l’autonomia e quindi il rischio. E allora non sai più dove dormire, e devi dormire, perché riposare e mangiare, e essere trattati come persone “normali”, è parte integrante del nostro percorso che, ricordiamocelo, è stato sempre comunitario.
È grazie libri come questo che ci possiamo svegliare dal lungo sonno dell’indifferenza e della cecità.