Per non ripetere la Storia. La Shoah nei racconti non solo dei testimoni
Moltissimi sono i libri, sotto forma di racconti, memorie, ricordi, diari, romanzi di formazione che ricordano un incubo mostruoso nel percorso dell’uomo.
“E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere”.
Il riferimento dantesco alla assoluta, umana, incomunicabilità dell’orrore, alla capacità non solo razionale di immetterlo negli schemi di comprensione – e talvolta di resistere alla sua energia demoniaca – lo si trova all’interno di “Se questo è un uomo”, di Primo Levi, uno dei documenti più agghiaccianti dell’Olocausto. Ed è anche una sintesi delle reazioni dello spirito umano, in Levi da parte di chi è direttamente passato attraverso quel percorso indicibile. Il grande scrittore Jerome David Salinger, allora sergente dell’esercito americano, restò talmente sconvolto nell’ingresso a Dachau (fu tra i primi ad entrarci) che dovette rivolgersi ai medici: gli diagnosticarono un esaurimento nervoso, cosa accaduta a moltissimi dei militari che videro l’orrore dei corpi scheletriti e delle camere a gas. Il suo racconto “Sono pazzo” del 1945 risente di questo trauma.
Anche chi non ha sperimentato personalmente l’orrore ha scritto pagine in cui esso aleggia come un incubo che sconvolge ogni cosa, compreso l’amore umano: è il caso del “Giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani in cui l’apparente “no” della giovane Micòl alle profferte d’amore del narratore lo salva dalla deportazione e dalla scomparsa nel nulla.
Se Il “Diario di Anna Frank” è stata una delle fonti più longeve grazie alla sua adozione nelle scuole, anche la riedizione, proprio per i bambini, di “Una bambina e basta” di Lia Zevi, (con le illustrazioni di Zosia Dzierzawska) sta raggiungendo le fasce d’età più lontane dalla storia, ma anche più sensibili e meno abbarbicate a pregiudizi. “Clandestina” di Marie Jalowicz ricorda la lotta per la sopravvivenza di una diciannovenne che riesce a scampare dai carnefici. Anche i ricordi di Liliana Segre sono stati raccolti in alcune edizioni, come “Sopravvissuta ad Auschwitz”, a cura di Emanuela Zuccalà, e “La memoria rende liberi”, testimonianze raccolte da Enrico Mentana. Anche il grande scrittore ungherese Imre Kertész, premio Nobel per la letteratura nel 2002, in “Essere senza destino” ha toccato l’orrore di un evento che non ha risparmiato nessuno, neanche i bambini. La deportazione degli Ebrei a Roma è stata ricordata anche dal grande storico della letteratura Giacomo Debenedetti, che ha scritto pochissimo di narrativa, nel racconto “16 ottobre 1943”.
Ma moltissimi altri sono i libri, sotto forma di racconti, memorie, ricordi, diari, romanzi di formazione che ricordano un incubo mostruoso nel percorso dell’uomo in cui la ragione e l’anima sono state sottomesse da altro cui è difficile dare un nome, ma che c’è stato, non come atti di singoli, ma come pianificazione lenta, assurdamente raziocinante, da parte di un’entità politica. La letteratura è servita anche a questo: ricordare non solo attraverso i testimoni diretti, ma con il passaggio del testimone, poetico o narrativo, attraverso i tempi dell’uomo, perché ricordi. Come amava dire il filosofo George Santayana, “coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”.