La scuola senza campanella, raccontata da uno scrittore
Fabio Geda, autore di “Nel mare ci sono i coccodrilli” conosce e racconta il ruolo sociale che la scuola svolge. “Riaprire la scuole si poteva, ma bisognava volerlo. I ragazzi più fragili continuano a essere poco sognati dalle istituzioni. Ma si cresce solo se sognati, diceva Danilo Dolci”. Intanto i ragazzi si rincontrano nei parchi e nelle piazze: “E' una vigliaccheria proibirlo pubblicamente”
“A me piaceva parecchio andare a scuola, per me era un privilegio. Quando studiavo igiene ero stupito da quello che mi dicevano, perché lo paragonavo al mio passato, alle condizioni in cui avevo vissuto, al cibo che avevo mangiato: mi sono chiesto com'era possibile che fossi ancora tutto integro”: chissà cosa pensa oggi, Enaiatollah Akbari, protagonista e coautore del libro di Fabio Geda che racconta la sua storia, “Nel mare ci sono i coccodrilli”. Chissà cosa pensa, della scuola che ci stiamo immaginando, con mascherine, gel igienizzanti e soluzioni più o meno avveniristiche, che hanno l'obiettivo di ridurre il rischio di contagio. Nei giorni in cui la scuola sta chiudendo, senza che una campanella suoni, abbiamo chiesto a Fabio Geda, che prima di essere scrittore è educatore e osservatore del mondo giovanile, di dirci la sua.
Si dice che la scuola chiusa e la didattica a distanza abbiano perso per strada i più fragili. Magari quelli che, come Enaiatollah, avevano appena iniziato, proprio a scuola, la loro seconda vita. Cosa ne pensi?
Credo sia evidente, i dati sono sotto gli occhi di tutti. I ragazzi più fragili continuano a essere molto poco sognati dalle istituzioni, e Danilo Dolci su questo è stato chiaro: si cresce solo se sognati. È evidente che riaprire gli istituti scolastici sia tutt’altro che facile, per una serie di difficoltà logistiche e di gestione del rischio sanitario. Ma se i ragazzi si vedono in giro nei parchi, se abbiamo posto come urgente la riapertura delle fabbriche, delle attività di ristorazione e delle frontiere, se riparte il campionato di calcio, è assurdo non affrontare il nodo delle attività educative e l’emergenza di chi è rimasto indietro. Il ministero avrebbe dovuto mettersi a capo di un progetto ampio, coordinando le amministrazioni locali, coinvolgendo l’intera società civile, i genitori, le ragazze e i ragazzi stessi, le associazioni, i centri di aggregazione, le parrocchie, i volontari. Si potevano trovare modi, spazi e tempi per non mandare in vacanza la didattica, per fare scuola per chi ne aveva bisogno, per farla in sicurezza. Bisognava volerlo. Evidentemente non volevano.
Cosa pensi sia mancato in questi tre mesi ai ragazzi? Che idea ti sei fatto della scuola "virtuale"?
Mi sono fatto l’idea che ci siamo arrivati impreparati: questo è il primo problema. Erano impreparati gran parte degli studenti ed erano impreparati gran parte degli insegnanti. Era impreparato chi avrebbe dovuto far sì che loro fossero preparati. Sia studenti che docenti hanno dovuto apprendere sul campo le nuove regole di gioco, a volte con buoni risultati, a volte pessimi. Il secondo problema è che la didattica a distanza non può sostituire davvero quella in presenza. Non ha lo stesso impatto, non ha la stessa forza. Però mi sono anche fatto l’idea che ora che abbiamo famigliarizzato con gli strumenti potremo continuare a usarli anche fuori dall'emergenza. Faccio un esempio: spesso le scuole mi chiedono di andare a incontrare gli alunni per parlare di storie e capita che le distanze rendano impossibile organizzare l’incontro dal vivo. Be’, da oggi in poi immaginare di surrogarlo con la classe riunita a scuola, in classe, in aula magna, e l’autore in remoto su uno schermo credo sarà più semplice. In questo modo le scuole potrebbero raggiungere esperti e testimoni altrimenti irraggiungibili. Aggiungo: le scuole hanno bisogno di ristrutturare gli ambienti, lo sappiamo, anzitutto per questioni di sicurezza, ma anche di essere connesse a internet con linee dedicate e veloci. Una solida infrastruttura digitale (e insegnanti in grado si sfruttarne le potenzialità) non solo renderebbe più efficace la didattica tradizionale, ma sarebbe utile in caso di nuove emergenze, perché le scuole potrebbero ospitare fisicamente gli insegnanti che, da lì, da scuola, dalla loro classe, potrebbero fare lezione agli studenti a casa.
La scuola è finita ufficialmente, in gran parte d'Italia: nonostante le proposte e gli appelli, i saluti sono stati, alla fine, solo virtuali. Cosa di un "ultimo giorno" vissuto così?
Poco fa sono passato davanti a un parco pubblico: era pieno di ragazze e ragazzi. Dalle medie alle superiori, a gruppi di dieci, venti. Ho l’impressione che i saluti siano stati virtuali solo per una minoranza degli studenti. Molti di loro hanno ripreso a vedersi da maggio: di mattina compagni di classe in remoto e di pomeriggio amici in presenza. Giri in bici. Incontri in piazza. Parlando dell’ultimo giorno di scuola, è questa mancanza di trasparenza, di onestà e di "pensiero obliquo" delle istituzioni che mi sfianca. E la vigliaccheria di proibire pubblicamente qualcosa che sai già verrà fatto - peraltro sotto gli occhi di tutti, perché per salutarsi i ragazzi mica sono andati a rifugiarsi nelle cantine - ma di cui potrai dichiararti "non responsabile". Ora, intendiamoci, non credo che la mancanza di un saluto finale lasci cicatrici indelebili, ma le città sono piene di parchi, le scuole di cortili: immaginatevi una classe seduta in cerchio, all’aperto, studenti distanziati il giusto che chiacchierano con i professori di ciò che è successo in questi mesi, condividendo fatiche, vissuti, pensieri, rimettendo in gioco i corpi, le voci non disturbate dalle connessioni precarie. Un piccolo rito per elaborare questi mesi e ripartire. Non vi sembra una scena bella e preziosa? Era difficile suggerirla? Era così difficile realizzarla?
Le nostre scuole sono abitate dalle diversità: allo stesso banco siedono spesso bambini con vissuti, origini, lingue ed esperienze diversi e distanti. Enaiatollah aveva un compagno “un pochino disabile" con cui poteva studiare i primi tempi. Se la scuola italiana è tutto questo, cosa significherebbe trasformarla in un "ospedale che cura i sani e respinge i malati"? Cosa perderebbe il nostro Paese?
Quella è una espressione che amo particolarmente: appartiene a don Milani. Cosa perderebbe il nostro Paese? Beh, non solo il nostro Paese, ma il mondo intero perderebbe di vista il cuore della propria missione educativa se si concentrasse su chi può e non si preoccupasse di supportare chi non può. Un’altra frase famosa di don Milani, che ho mandato a memoria, è quella secondo cui non c’è nulla di più ingiusto che fare parti uguali tra diseguali. Le nostre energie educative devono essere spese secondo questo principio. E non si tratta di farlo per motivi tecnici o di convenienza sociale, che pure esistono, ma perché è giusto. O per lo meno, io credo lo sia.
Racconterai tutto questo, un giorno, in un racconto o un libro?
E chi lo sa. Le storie, dentro di noi, lavorano e si impongono in modi misteriosi.