La memoria ritrovabile. Nuove ricerche contro le malattie neurodegenerative con deficit cognitivo
La ricerca statunitense suggerisce che il deterioramento delle capacità di memoria e apprendimento associato all’età non sia una condizione permanente, bensì un fenomeno reversibile, a patto di intervenire su alcuni processi biomolecolari fondamentali.
I rilievi demografici, ormai da qualche tempo, non lasciano dubbi: la nostra società diventa sempre “anziana”, con meno nascite ed un innalzamento dell’età media di sopravvivenza. Ma se diventa più facile raggiungere un’età avanzata, non sempre ciò corrisponde a riuscire a viverla in condizioni ottimali di salute. In questa fascia della popolazione, infatti, si riscontra un aumento dei casi di malattie “neurodegenerative” – cui si accompagnano importanti deficit cognitivi – spesso “orfane” di rimedi terapeutici efficaci. Per la ricerca biomedica, dunque, una nuova sfida da affrontare per tempo, vista la tendenza demografica in atto.
Nuove speranze in questa direzione giungono da una recente ricerca (pubblicata su “Nature”) condotta da Para Minhas, della Stanford University (California, Usa), insieme ad alcuni suoi colleghi. Pur se ancora condotto sui topi, lo studio mostra come ridurre il livello d’infiammazione dell’organismo e stimolare il metabolismo delle cellule immunitarie chiamate “macrofagi” rappresentino, con ogni probabilità, strategie terapeutiche efficaci per far regredire il declino cognitivo legato all’invecchiamento.
In altre parole, la ricerca statunitense suggerisce che il deterioramento delle capacità di memoria e apprendimento associato all’età non sia una condizione permanente, bensì un fenomeno reversibile, a patto di intervenire su alcuni processi biomolecolari fondamentali. Si tratta di un importante chiarimento che riguarda aspetti fondamentali del complesso insieme di collegamenti tra sistema immunitario, infiammazione, invecchiamento e neurodegenerazione, una rete al cui centro ci sono proprio i macrofagi e il loro metabolismo.
E’ utile ricordare che i macrofagi sono cellule immunitarie, essenziali per la nostra salute in quanto rappresentano la prima linea di difesa contro le infezioni. Perciò esse si trovano in quasi tutti gli organi e, in particolare, nei tessuti periferici e nel cervello (dove costituiscono la “microglia”). Perché queste “sentinelle biologiche” si attivino contro i patogeni, tuttavia, è necessario un alto dispendio energetico, permesso da due differenti meccanismi metabolici: la glicolisi e la fosforilazione ossidativa. Ma entrambi questi processi tendono a diventare sempre meno efficienti man mano che l’organismo invecchia, compromettendo in particolare la salute del cervello. Inoltre, l’invecchiamento si associa di solito all’instaurarsi di uno stato d’infiammazione cronica (seppur di basso livello), mediata da una molecola pro-infiammatoria – detta “prostaglandina E2” (pGE2) – presente ad alti livelli anche in alcune malattie neurodegenerative.
Da qui l’idea di Minhas e colleghi di verificare se i cambiamenti dei macrofagi con l’età fossero in qualche modo innescati proprio dalla pGE2. Ebbene, il loro studio sperimentale ha evidenziato anzitutto come, nei topi anziani, i macrofagi dei tessuti periferici e la microglia presentassero alti livelli di pGE2. Inoltre, l’attività di questa molecola innescava in queste cellule una disfunzione metabolica che, a sua volta, originava un’infiammazione cronica sistemica e un conseguente deterioramento delle capacità cognitive.
Successivamente, i ricercatori hanno tentato – con due procedure diverse – d’influenzare questa cascata di processi intervenendo sui recettori cellulari a cui si lega la pGE2. In entrambi i casi, l’intervento è riuscito a migliorare il metabolismo delle cellule, riportandolo ad uno stato simile a quello dell’età giovanile, insieme ad una diminuzione dello stato d’infiammazione dell’organismo.
Ma il risultato più importante e sorprendente è che i topi hanno recuperato le loro abilità cognitive, in particolare quelle relative alla memoria spaziale, ritrovando una notevole funzionalità nella regione cerebrale detta “ippocampo”, importante per l’apprendimento e la memoria.
E’ d’obbligo la cautela dovuta al fatto che si tratta di una sperimentazione su modello animale, ma senz’altro questi risultati offrono interessanti spunti di ulteriore ricerca, soprattutto su condizioni patologiche (ad esempio il morbo di Alzheimer) in cui le disfunzioni metaboliche della microglia possono rivestire un ruolo importante.