Il tempo come ricerca di senso. Cento anni fa moriva Marcel Proust, lasciandoci un messaggio di speranza
Il 18 novembre di un secolo fa moriva, a cinquantun anni, Marcel Proust.
Il 18 novembre di un secolo fa moriva, a cinquantun anni, Marcel Proust, autore di una delle opere per eccellenza del Novecento, fatta di sette libri e di uno sforzo prometeico di cercare il senso ultimo dell’esistenza. Come tutte le opere geniali, anche Alla ricerca del tempo perduto sembra andare in direzioni diverse se non opposte alla realtà biografica del suo autore. Raffinato dandy, mise però in guardia i suoi lettori da quel dandysmo, come ha posto in evidenza il recente E’ un demonio, quel Proust! di Armando Santarelli (edizioni Il ramo e la foglia, 184 pagine, 16 euro): “Proust mostra di rifiutare il dandysmo e l’atteggiamento decadente, perché effimeri, e in qualche modo compagni del satanismo”. È davvero sorprendente trovare in un giovane “viziato”, che non ha bisogno di lavorare, che frequenta i salotti più prestigiosi della Parigi bene, dalla scrittura raffinata, elegante, talvolta preziosa, l’autocoscienza, proiettata nei suoi personaggi, dei limiti e del pericolo di quel tipo di frequentazioni. E soprattutto rinvenire, ad esempio nel volume I Guermantes, l’attenzione verso i miserabili dei bassifondi, verso le madri bastonate persino dai figli ubriachi. Ha ragione Santarelli, il paradosso è anche il senso del suo genio e della sua capacità di superare i secoli e le mode: pur vivendo in una realtà decadente e snob, Proust segna il superamento del decadentismo e dello snobismo attraverso la vittoria dell’arte -e non solo- sul tempo e sul dolore.
La sua è una inesausta Ricerca di senso immersa nel tempo, ma anche nello spazio di quelle cattedrali che il laico Proust difenderà contro le laicissime leggi francesi di inizio secolo che ne volevano la statalizzazione e musealizzazione. Il genio del tempo ritrovato, che conosceva personalmente Bergson, il filosofo del tempo interiore, per esserne diventato parente, aveva intuito, pur non essendo praticante, che una chiesa ha senso e origine come luogo di ricerca di Dio: le opere al suo interno, dal più anonimo artigiano al grande artista, sono tutt’uno con lo spirito.
In quella Francia, in quelle famiglie benestanti e di tradizione laica -e positivista-, in quei salotti dove regnava la ricerca di piacere effimero, contro i quali l’antico positivista Huysmans pronuncerà già nel 1884 la condanna con Controcorrente (tradotto da noi anche come A ritroso), non era facile il passaggio verso una fede salda e militante. Ciò nonostante in Proust, sia nella vita che nei suoi scritti, si fa largo la ricerca spirituale, evidente in una lettera scritta un mese prima della sua morte, in cui affermava di credere anche se in un modo ancora “piccolo”: il che non lo allontana, anzi, se mai lo avvicina a quella ricerca di Dio fatta di solitudine, ripensamenti, ostacoli, crisi tipica di tutti coloro che hanno intrapreso questa ardua strada.
È per questo che per lui non si può parlare di uno spiritualismo senza Dio, ma di una ricerca costante, attraverso anche la rimessa in discussione del proprio sé, che non esclude un lento avvicinamento alla fede attraverso il dolore, la perdita, ma che nello stesso tempo prefigura il ritrovamento di una bellezza divina. Grazie anche all’intuizione di un tempo che non tramonta, perché il grande tesoro della vita non è prigioniero dell’arido computo del tempo fisico, ma nel nostro continuo essere e divenire, come molto prima di Bergson aveva intuito un altro che di crisi se ne intendeva, sant’Agostino: egli poteva dire nelle Confessioni che “il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione, il presente del futuro l’attesa”, in una sempre più cosciente e vigile attesa di una rivelazione finale. Che talvolta è anticipata da quelle piccole epifanie che ci arrivano inaspettate e che Proust conosceva bene, perché, come aveva scritto nel Tempo ritrovato “nel momento in cui tutto sembra perduto, giunge il messaggio che può salvarci”.