Dagli orrori dei lager riemerge la “musica concentrazionaria”. Un archivio per ricordare gli artisti deportati
L'impresa di Francesco Lotoro per raccogliere la produzione artistica dei musicisti rinchiusi nei campi di concentramento nazisti e stalinisti dal 1933 al 1953. Un lavoro minuzioso di recupero, studio, revisione, archiviazione, esecuzione e registrazione discografica di partiture scritte perché restasse un segno di quei 20 anni in cui compositori, direttori d’orchestra, solisti, uomini di teatro e di spettacolo sparirono: perseguitati e discriminati per la loro etnia, religione, disabilità, orientamento sessuale
L’arte rende liberi e può aiutare a salvarsi dal dolore fisico e da quello interiore. La conferma è nella storia di Francesco Lotoro, pianista, compositore e direttore d’orchestra pugliese, che in 30 anni ha raccolto la produzione artistica dei musicisti rinchiusi nei campi di concentramento tra il 1933, apertura del campo di Dachau, e il 1953, data che segna la morte di Stalin e l’amnistia dei prigionieri nei Gulag.
Un archivio musicale unico al mondo, composto da oltre 8000 partiture, 12.500 documenti sulla produzione nei campi, da diari a piccoli video e interviste a musicisti.
Un lavoro minuzioso di recupero, studio, revisione, archiviazione, esecuzione e registrazione discografica di partiture scritte perché di quei 20 anni, in cui compositori, direttori d’orchestra, solisti, uomini di teatro e di spettacolo sparirono, perseguitati e discriminati per la loro etnia, per la loro religione, per la loro disabilità o per il loro orientamento sessuale, restasse un segno, una traccia, una speranza di sopravvivere alla morte. Lotoro ha coniato un’espressione nuova che racchiudesse un repertorio diventato patrimonio dell’umanità:
“musica concentrazionaria”.
“Ci avevano già pensato i deportati nei campi di concentramento ad autodefinirsi ‘concentrazionari’ – spiega – e il termine in italiano è riportato nei vocabolari ma veniva usato in altri contesti. Nella lingua francese, invece, era frutto della letteratura postbellica. È stato più difficile farlo entrare nell’uso anglosassone ma alla fine ce l’abbiamo fatta.Usando il termine ‘concentrazionaria’ si vogliono definire delle coordinate geopolitiche, storiche, più che musicali.
Questa è musica ma non possiamo non considerare che è stata scritta in un momento epocale di grande sofferenza, di tragedia giunta fino alle catastrofi umanitarie della Shoah, del porrajmos (il nome che Rom e Sinti danno allo sterminio nazista, ndr) ma comprensiva delle deportazioni civili, politiche e militari di ogni colore. Quindi ‘concentrazionaria’ è un aggettivo che necessariamente andava associato a musica, perché porta su di sé un enorme carico di sofferenza ma anche i frutti più belli dell’ingegno”.
Lotoro torna indietro negli anni, agli inizi della sua ricerca: “Nel 1988 mi ero già mosso su Praga per ricavare delle linee, dei profili di questa letteratura che ovviamente nei primi anni era soprattutto incentrata sulla produzione artistica da parte degli ebrei nei campi di concentramento. Per i 4-5 anni successivi mi sono dedicato esclusivamente a questo, solo dopo ho deciso di allargare le mie ricerche anche a cristiani, sinti, rom, baschi, spagnoli, soldati di tutte le parti in guerra, persone perseguitate per ideologia perché ostili al nazionalsocialismo, perché omosessuali o perché disabili, insomma a tutti coloro che erano stati discriminati”.
E in trent’anni Lotoro ha colto il filo rosso che lega questa sterminata produzione artistica, che partendo dalla musica classica, passa per il jazz o lo swing, per arrivare al teatro, al cabaret, al varietà.
“Gli artisti non celebrano quel dolore, non sono i poeti del campo di concentramento. Piuttosto, nelle loro produzioni esorcizzano il dramma che vivono, giocando con l’ironia, con la parodia, con la presa in giro del potere”.
Per il musicista originario di Barletta, in trent’anni sono cambiate le modalità di ricerca. “Quando è cominciata questa ricerca, internet non esisteva o almeno io non lo usavo ancora. Ci sono arrivato molto tardi. Le comunicazioni con i sopravvissuti o con le istituzioni, per ottenere informazioni, erano lunghe, farraginose, spesso per via epistolare, raramente si poteva telefonare. Il beneficio della ricerca però, negli anni ’90, era di avere il sopravvissuto ancora in vita. Oggi che la comunicazione avviene con velocità, grazie ad internet, ci si interfaccia con figli che magari, mentre i genitori ritenevano un atto dovuto fornire i manoscritti, non vogliono condividerli, bisogna convincerli. Più facile è con i nipoti. Colgono l’importanza e non fanno resistenza a mandarmi un pdf velocemente in allegato ad una email”.
Poiché l’archivio raccolto da Lotoro, tutelato attraverso la Fondazione Istituto letteratura musicale concentrazionaria che ha fondato nel 2014, è ormai sterminato,
è nato il progetto di un luogo fisico che possa raccoglierlo e custodirlo, aprendosi al contempo a fruitori esterni.
Così dalla prossima primavera, grazie anche al sostegno della Regione Puglia, partiranno i lavori per trasformare un sito di archeologia industriale, un’ex distilleria di Barletta, in una “cittadella della musica concentrazionaria”. Novemila metri quadri che accoglieranno un campus, con aree di studio e ricerca sulla musica concentrazionaria, un master, un corso triennale di Letteratura musicale ebraica e un laboratorio di restauro di spartiti e strumenti; un museo, la biblioteca delle scienze musicali, un teatro all’aperto, aree ristorazione e la libreria internazionale sull’offerta editoriale musicale del Novecento. “I lavori saranno completati nel 2024 – conclude Francesco Lotoro – e sarà il più grande hub al mondo dedicato alla musica prodotta nei campi di concentramento”.
Marina Luzzi