Cercatori di assoluto. Giorgio Caproni, la sua poesia e la ricerca di Dio. Una ricerca comune a molti
La grande poesia del Novecento è anche il racconto di una lunga lotta contro la tentazione del nulla.
Trent’anni fa moriva Giorgio Caproni, uno dei più grandi poeti del nostro Novecento. Partito sotto l’inevitabile, per i suoi tempi, influenza ermetica, lentamente ha maturato una poesia fatta di domande sul perché della vita. La lezione di Montale era evidente in quel verso tratto dal “Lamento (o boria) del preticello deriso” in cui il sacerdote afferma di pregare non perché Dio esiste con assoluta certezza, ma “perché Dio esista”. Il dubbio lo accomuna anche all’ultimo Carlo Betocchi, ma soprattutto a quello da lui dichiarato sempre come un esempio di amore per la vita, e non di pessimismo, il Leopardi tanto ritornato d’attualità grazie alle ricorrenze e al film di Mario Martone.
Anche se il capolavoro assoluto di Caproni è il recupero della figura materna attraverso la ripresa del suo prima, di quando era una ragazza. In una struggente ripresa del congedo medioevale (nel quale i poeti si rivolgevano alla propria poesia) scriveva, senza nessun scadimento nella tentazione dell’Edipo freudiano, semmai nella celebrazione della inconsapevole felicità giovanile della donna: “Dille chi ti ha mandato:/ suo figlio, il suo fidanzato./ D’altro non ti richiedo./ Poi va’ pure in congedo”. La sua poesia manifestava un’oscillazione tra il dubbio e la resa al nulla, in una lotta incessante, che richiamava quella di Giacobbe con l’Angelo, da lui direttamente citata. Ma il Novecento è pieno – nonostante molti pensino il contrario – di cercatori d’assoluto, che trovino o meno nel corso di questa “cerca”, il Graal. Il grande modello è Baudelaire, che sente oscuramente la lotta tra bene e male nella città tentacolare, ma poi i grandi si emanciperanno, chi nella comunione con il divino nella Natura, come Whitman, chi nell’abbandono della vita di prima e la scelta della resa totale a Cristo, come nel caso di Clemente Rebora.
Abbiamo un grande numero di poeti che si sono avvicinati alla spiritualità, non per forza cristiana, come nel caso di Arturo Onofri, o Marino Piazzolla o Maria Luisa Spaziani. Se qualcuno pensasse ai poeti dichiaratamente credenti come santini sorridenti e ottimisti rimarrebbe deluso: Umberto Marvardi è stato autore di una poesia intesa come spasmodica tensione verso un Altrove agognato ma spesso nascosto nel dolore dell’oggi. Giovanni Raboni è teso ad una ricerca che riveli come “non sia vera/ l’oscena materia del buio”. Lo stesso David Maria Turoldo, pur essendo un religioso, si rivolge a Dio chiedendogli “che tu mi salvi/ che non mi lasci per sempre/ soggiacere a questa/ quotidiana morte”.
Davide Rondoni racconta in versi il coincidere di umano discorso e Parola nelle cose quotidiane e umili. Mariangela Gualtieri riesce a darci il senso di una ricerca costante e faticosa di un segno dentro la notte, che non induce alla paura, semmai alla preghiera e alla speranza. Achille Abramo Saporiti vede nella fine una nuova alba fatta di un “fulgore” cui non si può resistere nel qui e nell’ora. La storia, con le sue contraddizioni, non riesce a celare il senso della ricerca di Dio nella poesia di Roberto Mussapi.
E come dimenticare il Dio della lotta e della sofferenza nei versi di Cristina Campo: “Ma perché io sorga e regga,/ tu rovesciami e tendimi la tua forza/ a spezzarmi,/ ad esplodermi, bruciarmi e farmi nuovo”. Se andassimo a vedere i rapporti con Dio nella poesia dialettale, avremmo solo conferme: il lucano Albino Pierro, il veneto (ma era nato a Grado, allora -1891- sotto gli Austriaci), il romagnolo Raffaello Baldini non tacciono la profonda religiosità delle tradizioni e delle radici. E abbiamo tralasciato citazioni da importanti autori come Fernando Bandini, Renzo Barsacchi, Amelia Rosselli, Giovanni Giudici, Alessandro Ceni, Milo De Angelis, Patrizia Valduga, solo per ricordarne alcuni che testimoniano l’incessante presenza dell’Altro nella vita, nella ricerca, nella scrittura.