Vite in frantumi. Il suicidio di Matteo e la fragilità dei nostri giovani
Anche l’amore più forte – quello dei genitori in questo caso – può non essere sufficiente a penetrare e proteggere la persona amata.
C’è una notizia che è transitata nei giorni scorsi sui media di ogni genere che vale la pena di riprendere e sulla quale soffermarsi per qualche riflessione.
Si tratta di una storia di giovani e di morte. Riguarda Matteo Cecconi, un ragazzo di 18 anni che si è suicidato bevendo del veleno durante una ordinaria mattinata di scuola – in Dad – mentre si trovava davanti al proprio pc con il quale si era collegato ad un sito che avrebbe facilitato la sua decisione finale.
18 anni, studente di un istituto tecnico, in quarta, in una tranquilla provincia del profondo Nord, a Bassano del Grappa.
Difficile comprendere un gesto come quello di Matteo. E probabilmente non ci sono parole che possano dire il dolore di chi gli era più vicino, a cominciare dai genitori. Con loro condividiamo lo sgomento che si fa ancora più terribile nel leggere le parole che lo stesso Matteo ha lasciato scritte proprio quella tragica mattina di aprile in cui ha preso la decisione di togliersi la vita: “Non datevi colpe che non avete, ho dissimulato molto bene. Siete stati i genitori migliori che potessi desiderare”.
Sgomento, perché siamo di fronte al mistero dell’anima umana, degli abissi che ciascuno può conoscere e “dissimulare molto bene”, siamo di fronte al senso di impotenza che si prova quando l’altro – in questo caso un figlio amato – chiude la propria porta, blocca la relazione. “Non datevi colpe che non avete”. Può voler dire anche: “Non potete fare nulla”. O anche tradursi in un’altra tragica – nel senso della “tragicità” greca della vita – esperienza che pure è quotidiana e dice di come anche l’amore più forte – quello dei genitori in questo caso – può non essere sufficiente a penetrare e proteggere la persona amata.
Quanto sono fragili i nostri giovani, viene da pensare. Ma in realtà è un po’ di tutti che si può dire così, nel senso che la fragilità – collegata alla solitudine: questo è il risultato di quella “porta chiusa” – è una condizione costante dell’umano.
A queste considerazioni se ne possono aggiungere alcune altre, legate alle circostanze della morte di Matteo. La scena è dominata da un pc, sembra anche legata addirittura a un sito internet che se non istiga direttamente al suicidio ne alimenta il brodo di coltura. I media raccontano che, durante la mattina di scuola a distanza – quella scuola fatta ciascuno da sé, nella propria stanza – Matteo si stava collegando a una pagina web in cui si discuteva di suicidio, unendosi a una “community” – ma è la parola giusta? – di migliaia di persone conosciute/sconosciute con le quali da qualche tempo era in contatto. Persone dalle quali poteva ricevere incoraggiamento o quantomeno comprensione per il gesto estremo che stava per compiere.
E’ stato indotto al suicidio (tra l’altro due casi simili sono accaduti solo pochi mesi prima)? Il padre di Matteo ha detto di pensare che il proprio figlio avesse già da solo maturato la scelta. Certo – sono le sue parole riferite dai media – “sul sito in cui navigava quell’ultima mattina ha trovato, invece, persone che l’hanno accompagnato nella sua scelta e assecondato”.
Naturalmente la magistratura sta operando per capire. Forse troverà anche responsabilità da perseguire. Certo rimangono il senso di vuoto e di fallimento davanti a una tragedia che oltre alle persone direttamente coinvolte interpella il mondo dell’educazione in generale, il senso e la possibilità della cura, oltre ai suoi inevitabili limiti.