Violenze in carcere, Giovanni Maria Flick: “L’informazione, snodo critico”
L’ex ministro della Giustizia e presidente emerito della Corte costituzionale sui fatti di Santa Maria Capua Vetere: “Il sovraffollamento incide pesantemente. Sbagliato considerare la giustizia come un parametro economico”. Sul carcere “si riesce a manipolare e a trasformare in un conflitto politico tra parti quella che dovrebbe essere una constatazione obiettiva di tradimento della Costituzione”
“Ci si stupisce di questi fatti come fossero un caso eccezionale, mentre il meccanismo fa parte della quotidianità e della mentalità. Ci si indigna per tre giorni e poi ricomincia tutto daccapo, fino alla prossima volta”.
L’ex ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, interviene sulle violenze ai danni di detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. “Giusto condannare, ma ora c’è bisogno di agire per recuperare una fiducia nella giustizia perduta prima con le vicende elettorali e del CSM, e con quelle della correntocrazia e degli incarichi direttivi, ora con le vicende dell’organizzazione e dell’esecuzione della pena e con la tortura”.
Agire in quale direzione?
“Il problema di fondo è che c’è un clima da superare completamente da parte di tutti quelli che a vario titolo, politici, magistrati, avvocati, burocrati in senso ampio, operatori dei media, sono coinvolti nella gestione della giustizia. La considerazione del detenuto come un ‘diverso senza diritti’ deve essere modificata in tutti: dal livello base, il livello di chi esegue, salendo fino ai vertici, per arrivare al disinteresse della politica. Proprio in questi giorni ho in mano l’ordinanza di un tribunale di sorveglianza nella quale si dice che per il detenuto l’aver preso una laurea ed un master (questa persona ha studiato in carcere) può diventare strumento per commettere altri reati e quindi motivo – non l’unico, per fortuna, – per non concedere la cosiddetta detenzione domiciliare facoltativa per motivi di salute. Una interpretazione che annulla in un colpo solo le possibilità offerte dall’art 27 della Costituzione e il principio di dignità. E’ chiaro che qui c’è bisogno di una rieducazione profonda che non riguarda soltanto le ultime ruote del carro ma che riguarda tutti. Riguarda anche noi, che ci indigniamo davanti agli episodi di violenza, ma anche quando vediamo il detenuto che deve uscire per ragioni di salute come è capitato recentemente durante il lockdown”.
Dove va cercata la causa dei comportamenti violenti?
“Il sovraffollamento incide pesantemente, insieme al clima di fortissima tensione che si continua a vivere nelle carceri e al fatto di avere messo da parte in malo modo i lavori della commissione organizzata dal ministro Orlando, la riforma Giostra del sistema penitenziario. Forse era troppo ampia, ma va ripresa anche alla luce di quanto accaduto nella gestione della pandemia, quando abbiamo sperimentato una contraddizione in termini: vietare il contatto tra chi è fuori, addirittura punendolo, e imporre invece la coabitazione coatta a chi è dentro. Le carceri affrontano ogni giorno una situazione di emergenza permanente nella quale il sovraffollamento continua a essere visto e gestito come un fenomeno di emergenza e non come un fenomeno strutturale”.
“Un problema – prosegue Flick - che è stato oggetto di disinteresse da parte della politica mentre, in un clima contraddittorio, si è continuato a limitare la libertà per rieducare la libertà. Ho sperato, come pochi altri, che la pandemia fosse l’occasione per una svolta molto forte sul carcere, ma non è avvenuto. E non parlo di amnistia ma di una svolta che dovrebbe essere epocale. Non possiamo pensare, nel 2021, di rieducare alla libertà, privando della libertà in un contesto che già priva tutti del contatto umano”.
Dove va cercata, invece, la responsabilità?
“C’è stato una sorta di tentativo più o meno dilagante di difesa dell’esistente. Quando il sottosegretario del governo precedente è andato a dire che tutto era regolare, quando il ministro ha spiegato che si trattava del ripristino della legalità: o la catena di informazioni era fasulla, disorganizzata o manchevole, oppure siamo di fronte a complicità o, quantomeno, disinteresse per chi ci sta davanti e/o superficialità. Occorre non dimenticare mai l’insegnamento fondamentale di una persona che ho avuto il privilegio di poter chiamare a lavorare con me al Dap, Alessandro Margara: ‘dietro a ogni detenuto c’è una persona’. Ora la figura di Margara viene celebrata spesso, ma ricordo che al suo funerale eravamo in quattro o cinque amici ed estimatori, complice il mese di agosto”.
“Oppure si ritiene sufficiente la condanna a parole, per quanto sentite. Penso alla dichiarazione del Comitato dei giudici di sorveglianza, impegnati in prima linea per la legalità nell’esecuzione della pena: “esprime…, riafferma…, rappresenta…, riconosce…, evidenzia…, interpella…, sottolinea…, auspica…”; l’unica parola mancante è “agisce”.
“A tutti i livelli, dai più alti ai più bassi, il tema di cui si dibatte non riguarda tanto e solo le vessazioni e le torture ai detenuti, ma quanta colpa ha la parte politica che non le condanna a sufficienza e quanta la parte politica che le giustifica troppo: cioè, si riesce a manipolare e a trasformare in un conflitto politico tra parti quella che dovrebbe essere una constatazione obiettiva di tradimento della Costituzione in cui dovrebbero essere in gioco tutti, per domandarci se e quali responsabilità abbiamo”.
In diversi ambiti si difende la costruzione di nuove carceri come soluzione di tutti i mali. Qual è la sua posizione?
“Non prendo posizione ma leggo interventi che non condivido, anche se motivati da ragioni serie, e non invece soltanto da simpatie panpenalistiche e pancarcerarie troppo diffuse di recente in nome di una sicurezza illusoria. Il discorso dell’analisi economica per la costruzione di nuove carceri riporta a un tema più ampio: si continua a vedere la giustizia come un parametro di tipo prevalentemente se non esclusivamente economico. Anche adesso. Mentre invece, almeno di fronte a situazioni di questo genere, bisognerebbe portare in primo piano una responsabilità di sistema e vedere quali strumenti abbiamo a disposizione per correggerla. Apprezzo in modo particolare la sensibilità con cui la Ministra della giustizia ha saputo completare e arricchire sotto il profilo costituzionale e umano il richiamo del Presidente del Consiglio al rapporto fra la giustizia e il Recovery fund, che altrimenti in prima battuta avrebbe potuto essere frainteso o interpretato riduttivamente”.
“Quanto alla correzione – sottolinea l’ex Guardasigilli -, suggerisco tre parole: formazione, informazione e responsabilizzazione in tutte le sue forme, comprese la responsabilità penale e quella disciplinare”.
Di queste qual è lo snodo principale?
“L’informazione è lo snodo più preoccupante perché se i vertici, ai vari livelli, vengono a dire in Parlamento che “va tutto bene, è tutto tranquillo, abbiamo ripristinato la legalità” significa che o non sapevano nulla e allora c’è da dubitare della loro capacità di guardare all’interno della struttura, o, nel caso avessero saputo, allora il problema cambia perché diventa una forma di concorso. Quando si afferma “non sapevo”, le cose sono due: o l’informazione è bugiarda e io non me ne accorgo, ed è preoccupante, o l’informazione è fraudolenta, allora va colpito chi ha dato l’informazione. Ma questo non vale solo per il periodo del ministro precedente perché quattro mesi passati da allora sono tanti: per i giudici, per la politica, per la pubblica amministrazione”.
“La costruzione di nuove carceri come rimedio ricalca la logica della giustizia solo come coefficiente essenziale per raggiungere i finanziamenti, per non doverli restituire, ignorando in prima battuta la pena e la sua esecuzione. Si pensa a come fare per non restituire i soldi all’Europa: invece la dignità che abbiamo distrutto, ai detenuti come la restituiamo?”.