Venerdì Santo. Don Grimaldi: “Gesù dalla croce ci invita ad avere uno sguardo di misericordia verso i detenuti”
“C’è un dolore che si nasconde nelle celle. Il compito della Chiesa è di dare speranza. Dall’altra parte, ovviamente, è necessario il pentimento e intraprendere un cammino di conversione”, ci dice l’ispettore generale dei cappellani delle carceri
In Gesù Crocifisso è riassunto il dolore del mondo: di chi soffre in ospedale, di chi vive un lutto, di chi è solo, di chi è costretto a lasciare la propria patria, di chi è chiuso in una cella. Ma in quel Crocifisso troviamo anche la misericordia e il perdono e nella Risurrezione del giorno di Pasqua una possibilità di vita nuova che Dio sempre ci concede. Di tutto questo parliamo con don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane.
Don Raffaele, il Venerdì Santo è il giorno del dolore…
Nella Settimana Santa il Venerdì Santo, in modo particolare, richiama il dolore di tutta l’umanità: il dolore di coloro che sono colpiti dalla guerra, di coloro che perdono i loro familiari e coloro che perdono le loro sicurezze umane, il dolore di chi è costretto a migrare e tante volte perde la vita alla ricerca di una vita migliore, il dolore dei malati che in ospedale stanno vivendo il loro calvario, il dolore dai tanti luoghi di solitudine, come gli ospizi dove sono abbandonati tanti anziani.
Tra i luoghi di sofferenza non possiamo dimenticare le carceri, questi luoghi di abbandono, sofferenza, angoscia, che fanno intravedere quella Passione stessa di Gesù che si incarna in questi nostri fratelli.
Nel Giudizio universale, infatti, Gesù ci dirà: “Ero in carcere e mi avete visitato, qualunque cosa avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli lo avete fatto a me”. Il dolore è compagno di viaggio dei detenuti che hanno commesso reati, che stanno scontando una pena, ma che vivono un percorso di rinascita spirituale, di conversione e di comprensione dei propri errori nel commettere i reati. Sono due dolori diversi: quello dei detenuti, privati della loro libertà personale, che fanno i conti con il male compiuto, ma questo non li deve portare alla disperazione. Nei testi liturgici del Venerdì Santo, Gesù è il servo obbediente che ha donato la vita, un agnello muto condotto al macello. Nei nostri istituti penitenziari c’è un dolore silenzioso, che non si riesce a esprimere in tutta la sua crudezza. C’è un dolore che si nasconde nelle celle: solo noi operatori, che incontriamo i detenuti, possiamo asciugare le loro lacrime, capire il dolore nascosto che vivono. Sono tanti i drammi vissuti all’interno dei nostri istituti e tante volte il peso di quel dolore per i reati commessi è così insopportabile da portare al suicidio i detenuti, sopraffatti dalla disperazione.
Il compito della Chiesa è di dare speranza, di far uscire fuori il dolore per poterlo consolare.
I volontari, soprattutto i cappellani e la Chiesa tutta provano a rialzare la persona che ha commesso dei reati consegnando nel loro cuore, nella loro mente, nelle loro mani l’abbraccio della misericordia di Dio, che perdona tutti. Dall’altra parte, ovviamente, è necessario il pentimento. Poi c’è anche l’altra faccia del dolore, che non possiamo dimenticare: la sofferenza delle famiglie che hanno vissuto la tragica morte di un loro caro per colpa di chi sta ora in carcere.
E come aiutare i familiari delle vittime di reati a superare il Venerdì Santo?
Ai familiari delle vittime bisogna porre una maggiore attenzione aiutandoli a vivere percorsi di rinascita.
Il dolore e il rancore imprigionano l’uomo. Per chi ha subito un torto, chi ha subito la morte di un caro non è facile umanamente dimenticare e perdonare. Per questo bisogna accompagnare le vittime a una loro rinascita, una loro risurrezione affinché anche loro possano avere nel cuore l’atteggiamento di Dio che è sempre pronto al perdono e non alla condanna. Tutto questo ha bisogno di una cultura della misericordia, di un cammino di misericordia: se viviamo un cammino di fede possiamo superare questo scoglio e anche risorgere. Infatti,
anche le vittime hanno bisogno di una risurrezione, di una nuova vita, di essere aiutate a uscire dalle tombe del rancore, della rabbia, del dolore che talvolta imprigionano più loro che i detenuti.
Qual è oggi l’atteggiamento verso i detenuti?
Anche qui il Venerdì Santo ci può aiutare a riflettere. Davanti a Gesù c’è un popolo che si rivolge a Pilato gridando: “Crocifiggilo”. Ancora oggi c’è attorno a noi una mentalità chiusa alla misericordia che continuamente inveisce contro i detenuti, che certamente hanno sbagliato, stanno scontando la loro pena, ma, come ci invita a fare Papa Francesco, non chiudiamo la finestra della speranza a coloro che si sono macchiati anche di gravi reati. Il “Crocifiggilo” rivolto a Gesù diventa oggi un buttare le chiavi delle celle dei detenuti che hanno commesso gravi reati. Quello che è avvenuto a Gesù duemila anni fa può avvenire anche oggi verso chi ha sbagliato – e anche molto – ma vuole cambiare la propria vita. Pensando al Venerdì Santo mi viene in mente anche l’immagine di quando Gesù è stato spogliato delle sue vesti ed è stato inchiodato nudo sulla croce.
Quel Gesù a cui tolgono le vesti nei nostri istituti può significare che molte persone pensano che agli uomini che hanno commesso gravi reati bisogna togliere anche la dignità, ma la dignità è impressa nel cuore dell’uomo e non può essere cancellata, perché l’uomo è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio.
Gesù muore per tutti, buoni e “cattivi”: questo può aiutare a cambiare lo sguardo?
Certo, la morte di Gesù in Croce è per tutti, per i sani e per i malati. Ma in croce Gesù ci dice anche altro. Rivolgendosi al Padre celeste dice: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
Gesù, oltre a perdonare Lui stesso per la sua tragica uccisione, ci invita a perdonare coloro che possono commettere anche gravi errori,
considerando anche il contesto da cui provengono: familiare, sociale, ambientale, amicale. Gesù dalla croce ci aiuta a leggere gli errori degli altri con uno sguardo diverso, con lo sguardo stesso di Dio. “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”: molti detenuti commettono reati sotto l’effetto di droghe e davvero non sanno quello che fanno, non sono padroni di sé. Davanti alla fragilità, davanti alle periferie esistenziali, l’umanità deve offrire delle risposte non abbandonando coloro che hanno potuto commettere il male nella fossa della disperazione, ma tendendo loro le mani, attraverso risposte positive che non siano “buttiamo le chiavi”, ma “apriamo i cancelli”, cercando cioè di offrire opportunità nuove a coloro che hanno sbagliato.
Alla vigilia di Pasqua la Cei ha deciso di donare 8mila Bibbie ai detenuti…
L’iniziativa della Cei di donare le Bibbie ai detenuti con la visita del segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, a Paliano per la consegna simbolica delle Bibbie, che poi saranno consegnate a circa cento istituti penitenziari, non è altro che
un segno di fiducia e di speranza: vuole mostrare quel Signore Gesù che viene a portare la sua parola di salvezza anche nelle celle buie dove si nasconde l’uomo ferito dal peccato.
La Bibbia non è solo il libro della consolazione, ma è anche il libro che ci scuote, ci rimette in cammino, ci invita alla speranza e, al tempo stesso, ci invita alla conversione. Questo è il messaggio dei vescovi italiani che attraverso il dono della Bibbia ai detenuti: un invito alla conversione, al cambiamento, a percorrere strade diverse rispetto al passato, le strade della legalità.