Una foto per cambiare il mondo. E' possibile amare senza essere per forza modelli di perfezione fisica e di fotogenicità
Sorridere perché tuo figlio senza né braccia né gambe è felice di giocare con te, che non hai più una gamba, sei un rifugiato e non sai se saranno possibili cure e operazioni per sé e per quel bambino, è qualcosa di straniante.
Una foto che è diventata virale. Un papà senza una gamba, che solleva in aria appoggiandosi su una stampella un bimbo, sorridente per questo atto d’amore e di gioco: un attimo una volta tanto felicemente e utilmente immortalato da un obiettivo in questa sagra contemporanea di piatti strapieni che non saranno probabilmente terminati, che vale molto, anche perché il piccolo Mustafa, di cinque anni, non ha né gambe né braccia. Abituati come siamo a non dare alcuna importanza a un evento così apparentemente normale, quel sorriso felice di tutti e due ci suggerisce molto più di quello che ci dicono anni e anni di ormai stanche ripetizioni -contrabbandate per novità – di corpi scultorei e tentativi di immortalità estetica gettati in reality show come unici modi di sopravvivere socialmente.
Perché Mehmet Aslan, un fotografo turco, si trovava nell’Hatay, una provincia assai vicina al confine con la Siria, dove tentano di trovare rifugio migliaia di profughi che scappano dalla guerra civile, dalle carneficine, dalla miseria. Ha visto quella scena stupenda e l’ha consegnata alla storia. E al cuore profondo della gente. Di tutta la gente. Una foto che è un lungo doloroso racconto di un papà colpito da una bomba sganciata da un aereo siriano su un mercato, che mutila pesantemente Munzer privandolo di una gamba. La moglie, che aspetta un bimbo, è vittima del gas nervino che la costringe ad assumere medicinali che la salvano, ma agiscono in modo micidiale sul feto. Il bimbo viene alla luce senza arti.
Lo abbiamo detto: la guerra si somma alla povertà, alla fame, alla necessità dolorosa di lasciare tutto. A noi non farebbe piacere dover abbandonare i luoghi in cui siamo vissuti e ci siamo costruiti affetti e lavoro, e non perché cerchiamo un tenore di vita migliore, ma perché non è possibile sopravvivere. Sì, certo, la foto di Aslan ha vinto un premio prestigioso, il Siena International Photo Awards 1921 (migliaia di immagini in concorso da 163 paesi), ma i premi passano e rimane una carneficina tangibile, come è tangibile, in quella foto, anche altro: che è possibile amare senza essere per forza modelli di perfezione fisica e di fotogenicità. Sorridere perché tuo figlio senza né braccia né gambe è felice di giocare con te, che non hai più una gamba, sei un rifugiato e non sai se saranno possibili cure e operazioni per sé e per quel bambino, è qualcosa di straniante, che ci commuove ma che nello stesso tempo ci costringe a fare i conti con noi, la nostra società e i suoi modelli. Ci hanno insegnato, là dove non si dovrebbe (oggi la scuola conta molto di meno del gran circo televisivo), che tutto è immagine, bellezza – quale, poi? -, cipiglio fascinoso, urlo che fa vedere che uno ha gli attribuiti (e che non sarebbe stato fatto se non ci fosse stata la tv a riprenderti). Il successo è tutto, è essere guardati, spiati, giudicati non per quello che siamo ma per quello che appare di noi nel gran circo mediatico.
Quella foto invece è vita reale, sofferenza, mutilazione, povertà, mancanza di una casa, e pure gioia, gioco, accettazione dell’altro non in base all’estetica dominante, ma come essere, parte di sé e insieme fuori di sé, perché quel bambino per crescere ha bisogno di cure, interventi, protesi elettroniche che si trovano solo in occidente. E Mustafa è il simbolo reale, non retorico, di milioni di bambini che necessitano di cure mediche urgenti per essere strappati all’invalidità e ad una ancor più radicale emarginazione.
Una foto che racconta quello che si poteva pensare frutto dell’esagerazione e della retorica e che invece sta lì a parlare di una realtà così lontana, così vicina al nostro sazio, distratto, e talvolta annoiato occidente.