Torture in Libia. I testimoni: “Noi venduti da funzionari libici dell'Oim”
L'ultima inchiesta della magistratura siciliana su traffico di esseri umani e torture mostra “ambiguità” dell'agenzia per le migrazioni collegata all'Onu. Le testimonianze dei soccorsi dalla Alex: “Il libico dell'Oim mi ha venduto a un agricoltore. Ci liberano per convincerci a rimpatriare”
MILANO – Ci sono anche appartenenti all'Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) nelle carte degli inquirenti siciliani che hanno messo nel mirino, per l'ennesima volta, il traffico di uomini e le torture riservate ai migranti in Libia. Numerose sono le testimonianze che la Squadra Mobile di Agrigento ha raccolto nelle 35 pagine di decreto di fermo con cui la Procura di Palermo ha disposto l'arresto di tre uomini – due egiziani e un guineano, tutti con meno di 30 anni – dove si punta il dito contro alcuni funzionari africani che in Libia lavorano per l'agenzia collegata alla Nazioni Unite che si occupa di migrazioni e a cui aderiscono 173 Stati.
L'inchiesta – generata ad Agrigento e trasferita a Palermo per competenza della Procura distrettuale – nasce dallo sbarco di 59 migranti avvenuto a Lampedusa il 5 e 7 luglio 2019 a bordo del veliero “Alex” della ong Mediterranea, che li aveva soccorsi in mare. Uno sbarco avvenuto dopo l'ennesimo braccio di ferro fra ong e governo italiano. Diversi migranti, interrogati dalla polizia giudiziaria agrigentina, hanno riconosciuto i loro carcerieri e pur raccontando storie migratorie molto diverse, le versioni coincidono su alcuni punti fermi: tutti hanno affermato di essere stati trattenuti in stato di arresto per periodi variabili dentro un ex base militare adibita a carcere, recintato da alti muri e con un portone blu, vigilato da uomini armati nella città costiera di Zawya in Tripolitania, a dieci minuti dal mare e adiacente alla raffineria della città. Di essere stati divisi in base a sesso, etnia o provenienza, di aver subito torture e trattamenti inumani e aver versato una o più volte somme di denaro ai loro aguzzini, in proprio o attraverso la famiglia nei Paesi di origine, per essere liberati. A capo della rete che li ha imprigionati tutti hanno indicato un uomo di nome “Ossama”; il suo braccio destro di nome Mohamed descritto come il carceriere più violento, con una cicatrice in volto all'altezza dell'occhio; un sudanese di nome Papa Adjasko indicato come “addetto a picchiare i migranti”.
In molti hanno poi riconosciuto fotograficamente gli attuali tre indagati su cui pendono le accuse gravissime di associazione a delinquere, violenza sessuale, tortura, omicidio, sequestro di persona e favoreggiamento dell'immigrazione irregolare. Altri hanno fatto riferimento ad almeno una quarta persona: il libico Abdou Rahaman soprannominato “Bengi”, che si occupava di trasferire i migranti sulla spiaggia e il cui nome ricorda sinistramente quello di Abdul Rahman Milad detto “Bija”, capo della Guardia costiera di Zawya da anni sanzionato, come altri cittadini libici, e nel mirino del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite proprio per il suo doppio gioco di guardia coste e trafficante allo stesso tempo.
È invece nei meandri di alcune testimonianze messe a verbale che invece emerge un ruolo più marginale ma molto ambiguo della sezione libica dell'Oim. Proprio nel carcere di Zawya, suddiviso in diversi locali, alcune testimonianze parlano di un container dell'Organizzazione internazionale. Per i pm Calogero Ferrara, Gianluca Caputo, l'Aggiunto Marzia Sabella e prima di loro per la procura guidata da Luigi Patronaggio, “non è dato sapere se fosse in disuso e utilizzato dalla criminalità locale”. La testimonianza di un migrante, verbalizzata il 23 agosto e richiamata più volte nelle carte dei magistrati, parla dell'area del container dell'Oim come “collegata, tramite un portone, a un'altra base militare operativa in quanti lì vi erano militari e carri armati”. Mentre dentro al container vi era un libico di nome Mohamed con la barba lunga e vestito in abiti militari che “si avvaleva di un aiutante verosimilmente sudanese” di nome Yassine con indosso la casacca dell'Oim e che parlava inglese e arabo. Racconta l'uomo che è rimasto richiuso là dentro da giugno a dicembre del 2018: “Ricordo che un giorno tre sudanesi, dopo essersi lamentati con l’Oim in ordine all’operato delle guardie, sono stati ammazzati a botte da parte di Yassine, il sudanese. Io non ho assistito all’episodio, ho sentito per tutta la notte le grida di dolore dei tre migranti, sottoposti alle continue angherie da parte della guardie. Dopo quella occasione non ho avuto modo di vedere più i tre ragazzi sudanesi, mentre ho avuto modo di sentire i commenti di alcuni gambiani che discutevano della uccisione dei tre migranti”. Il racconto parla poi di come sia stato venduto: “Io sono riuscito ad uscire poiché Mohamed, il libico dell’Oim, mi ha venduto, forse per 500 dinari, ad un altro libico, tale Shibaskhi. Quest’ultimo mi ha trattato molto bene ed ho lavorato alle sue dipendenze, come bracciante agricolo, fino all’atto della mia partenza verso l’Italia”.
Il ruolo dell'Oim libico nelle carte è ambiguo perché se da una parte si parla apertamente di “vendita”, dall'altra i racconti dei migranti citano anche il termine “liberazione”. Per esempio, racconta un uomo camerunense, che “Io, malgrado ho subito delle torture con la corrente elettrica sono riuscito a sopravvivere e ad uscire libero da quella prigione, grazie ad un intervento dell’Oim che ha permesso di far liberare tutti i migranti presi in ostaggio da quella guerriglia”. “Preciso che – continua il camerunense – una volta liberati, non ricordo la data, tutti i migranti venivano condotti, da parte dell’Oim, in un quartiere di Sabratha, precisamente a Gaiat (fonetico, n.d.r.), in un capannone, dove c’era anche la polizia libica. Presso quella struttura, tramite le procedure, hanno cercato di rimpatriare o almeno convincerci a rientrare nei nostri paese di provenienza”. Molti non accettano il programma dei rimpatri volontari – o almeno così dovrebbero essere – attivo anche in Libia e fuggono dalla struttura. Diallo lo fa per almeno due volte venendo però sempre catturato da una milizia nota anche a livello internazionale con il nome inglese di “Asma Boys”. Dopo la seconda cattura dice di essere stato venduto alla polizia libica e condotto a Tajoura in un capannone con all'interno oltre 100 migranti divisi in reparti e controllati a vista. “C’erano anche donne e bambini. Sostanzialmente era una prigione della polizia libica. Presso questa ultima struttura, malgrado c’erano funzionari dell’Oim, la stragrande maggioranza di noi migranti pativa la fame e la sete. Nessuno veniva curato e quindi lasciato morire in assenza di cure mediche. Personalmente ho assistito alla morte di tanti migranti non curati”. Proprio a Tajura in effetti ha sede uno dei cosiddetti campi ufficiali gestiti dal Ministero dell'Interno del Governo di Tripoli e nel quale oltre alle organizzazioni internazionali dell'Onu operano diverse ong che hanno vinto i bandi del Ministero degli Esteri e dell'Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo per portare aiuti umanitari. Nel 2018 hanno ricevuto 4 milioni di euro dalla Farnesina per le loro attività.
Mentre su quale sia “l'abito” indossato dai poliziotti libici ufficiali regna il caos ancora oggi. Come ha raccontato Redattore sociale anche il capo della polizia di Zuwara – altra città costiera chiave per il flusso migratorio che attraversa il Mediterraneo – è stato indicato in una recente sentenza del Tribunale di Trapani come lo stesso uomo che vendeva i migranti o chiedeva loro denaro in cambio della liberazione e della possibilità di partire.