Taylor Swift e le bolle in cui siamo immersi
So chi sia e che faccia abbia Taylor Swift solo perché l’ultima volta che mi sono iscritto in palestra (tra il 2013 e il 2014), gli schermi delle TV riproducevano in continuazione un suo – appariscente – video musicale. Ma poiché le casse riproducevano un’altra stazione radio, ci ho messo un po’ a collegare la voce all’immagine.
Su Taylor Swift si è detto, scritto, commentato al parossismo. Persona dell’anno per il Time nel 2023, artista più importante al mondo, capace di far girare miliardi, influenzare carriere politiche e ispirare milioni di fan che la ossequiano come e più di una figura religiosa. Sabato 13 e domenica 14 luglio Taylor Swift è apparsa a San Siro per la devozione di oltre 130 mila fedeli attirati dal suo sguardo angelico, dalle sue note country e dal suo messaggio di empowerment femminile dal retrogusto commerciale. Se dedico queste righe a Taylor Swift è per una riflessione che ho sentito da più parti – non da ultimo Luca Bizzarri – sul fatto che, a fronte di folle bibliche e numeri da plebiscito, esista una maggioranza assoluta di popolazione occidentale che di Taylor Swift non sa nemmeno le fattezze, figuratevi essere in grado di canticchiarne una canzone. Non si sarebbe potuto dire lo stesso dei Beatles negli anni ’60 o di Michael Jackson nei primi anni ’90: all’epoca i media generalisti, seppur con qualche venatura di differenza, davano a tutti gli stessi ingredienti per orientarsi sulla realtà. Oggi non è più così: siamo tutti immersi nelle nostre bolle, ascoltiamo la nostra musica, leggiamo le nostre fonti, condividiamo le nostre ideologie e ci appassioniamo dei prodotti mediatici costruiti su misura su di noi e su chi condivide i nostri gusti. E così ci accorgiamo della più influente popstar del mondo solo quando riempie due San Siro sotto il naso. Internet e i social, in teoria costruiti per connetterci, ci hanno ancora più isolato ammazzando il concetto di “generalista”.