Striscia di Gaza: la frustrazione dei giovani, ma c’è anche chi non si arrende
Studiare senza nessuna prospettiva, sognando solo di andare via. Lasciarsi dietro un conflitto infinito ma anche gli affetti e la famiglia. Dalla visita dei vescovi dell'Hlc a Gaza è emersa tutta la frustrazione dei giovani della Striscia ma anche l'impegno della Chiesa perché crescano e vivano con dignità nella terra dove sono nati
“Quanti anni ha? Ventotto. E che cosa fa? Nulla. Cosa vuole che faccia. L’unica cosa da fare è cercare di andare via per trovare un futuro lontano da qui, oltre quel muro. Perché da questo lato non c’è nulla”. Miechel Tarazi abita a Gaza, con sua moglie Emily. Racconta di suo figlio, Youssef, uno dei cinque, con un diploma universitario in economia alle spalle. Tre sono sposati e vivono fuori, un altro sta ancora studiando, “ma con le stesse prospettive di Youssef: restare a casa senza lavoro, solo con il sogno di una vita dignitosa”. Miechel parla rivolgendo lo sguardo verso il suo parroco, che gli sta seduto a fianco, padre Gabriel Romanelli, che storie come questa ne ascolta tante, ogni giorno. La Striscia di Gaza, infatti, ne è piena. Come è piena di giovani che la popolano. Si stima che il 56% dei due milioni di abitanti di Gaza abbia meno di 18 anni. “La disoccupazione giovanile arriva a toccare punte anche del 70%” spiega il parroco.
Tra sogni e speranze. Oggi è una giornata particolare per la famiglia di Miechel perché a trovarlo sono venuti alcuni vescovi del Coordinamento della Terra Santa (Hlc), in questi giorni impegnati nell’annuale pellegrinaggio di solidarietà con i cristiani locali tra Gaza, Ramallah e Gerusalemme Est.
“Studiare sapendo che difficilmente troverai un lavoro, non potrai sposarti e mettere su casa qui dove sei nato e cresciuto, obbligato in qualche modo a partire, non è facile ed è a dir poco frustrante – rimarca Miechel –. Una situazione drammatica che accomuna musulmani e cristiani”.
“Quindici anni fa – interviene padre Romanelli – i cristiani della Striscia erano oltre 3.500, oggi poco meno di 1000. Inoltre, nell’ultimo anno, sono emigrati, passando dal confine egiziano, tra i 25 e i 30 mila giovani musulmani”.
Numeri che si incrociano con quelli di una crisi peggiorata negli anni anche a causa del blocco israeliano e di tre guerre ravvicinate (2009, 2012 e 2014). Bassam Nasser è il responsabile a Gaza dei progetti del Crs, Catholic Relief Service, l’agenzia umanitaria della Conferenza episcopale degli Usa: “le famiglie – dice al Sir – hanno energia elettrica solo per 8 ore al giorno, devono fare ricorso a generatori o a batterie; l’acqua non è potabile quindi sono costretti ad acquistarla, chi può ricicla acqua piovana; la ricostruzione post bellica è lenta, chi ha soldi ricostruisce grazie anche al basso costo della manodopera, ma gran parte della popolazione vive in case fatiscenti o in rifugi di fortuna; solo il 5% delle abitazioni ha un allaccio a ciò che resta del sistema fognario, il resto riversa in mare o a cielo aperto; il sistema sanitario è collassato, per curarsi le persone sono costrette ad uscire dalla Striscia ma la capacità delle Autorità locali di trasferire all’esterno i malati è molto limitata. Oggi l’80% dei gazawi sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari”. Che sono sempre meno dopo che il Dipartimento di Stato, per volere del presidente Trump, ha deciso di sospendere tutti gli aiuti finanziari nei confronti della Palestina e delle agenzie delle Nazioni Unite che lavorano con i rifugiati palestinesi. “Ma la cosa peggiore – sottolinea Bassam – è che la gente sta perdendo sempre di più la speranza e sogna di lasciare Gaza.
Ci sono decine di migliaia di bambini, soprattutto quelli nati dopo il 2009, che sono cresciuti sotto la guerra e non hanno conosciuto niente altro che violenza, morti in casa e difficoltà di vita”. “Da parte mia – conclude – continuo a sperare nella pace.
Credo che la soluzione Due Popoli, Due Stati sia ormai impraticabile, non resta che quella di uno Stato dove convivere insieme.
Una cosa è certa ci sono tanti israeliani e palestinesi che sono stanchi di guerra e di violenza e che si metterebbero in gioco per cercare una soluzione equa e sostenibile”.
Chiesa in prima linea. Nel contesto economicamente e socialmente depresso della Striscia di Gaza la Chiesa locale non fa mancare il suo apporto “concreto e di speranza” come i vescovi del Coordinamento della Terra Santa hanno potuto verificare direttamente visitando prima il nuovo ambulatorio di Caritas Jerusalem, “Gaza Health Center”, e poi il centro “San Tommaso d’Aquino”, attivato nel 2018 proprio dalla parrocchia latina della “Sacra Famiglia” della Striscia, opera che ha ottenuto anche il riconoscimento del ministero dell’Educazione.
“Il nostro Centro – dichiara padre Romanelli – aspira a creare una nuova generazione di ‘leader’ ben formati capaci di inserirsi con successo nel difficile mondo del lavoro della Striscia”.
“L’alto livello della formazione, anche teologica, la conoscenza delle lingue, l’elevata professionalità unita al rispetto di ogni idea politica e fede religiosa contribuiranno alla creazione di posti di lavoro e di conseguenza allo sviluppo economico e sociale di questa terra”. La prima fase del progetto, finanziato dalla sezione tedesca dei Cavalieri del Santo Sepolcro, ha visto l’inserimento di 46 giovani, altri 16 dovrebbero entrare nel programma che, annota il parroco, “chiede a questo punto continuità e per questo si affida alla generosità dei benefattori”. Tra questi sedici nuovi ingressi anche Randa, vedova e nonna, che spera in tal modo di poter aiutare i suoi nipotini. Come Lana, poco più che venticinquenne: “con un lavoro dignitoso possiamo crescere e vivere qui. Vogliamo restare a Gaza perché è la nostra casa”.