«Servono partecipazione e responsabilità»
Simonetta Rubinato, già parlamentare del Partito democratico e sindaco di Roncade, guarda con attenzione "da sinistra" alla partita dell'autonomia con la neonata associazione Veneto vivo. Una proposta civica e apartitica, perché l’aspirazione all’autogoverno dovrebbe superare ogni credo politico. Ora che i riflettori sono puntati addosso alla regione, bisogna formare i cittadini: perché la partecipazione democratica può fare la differenza per promuovere un vero sviluppo e per meritarsi l'autonomia.
All’interno del logo, il cerchio di stelle è un esplicito richiamo all’Europa, perché il rilancio di una riforma federale dev’essere integrato con la politica europea e sovranazionale.
“Veneto vivo” è la neonata associazione fondata dalla deputata Simonetta Rubinato. È libera, civica e apartitica perché l’aspirazione all’autogoverno sancita dal referendum del 22 ottobre 2017, secondo la fondatrice, dovrebbe superare ogni credo politico: scopo unico è perseguire una diversa e più efficace articolazione dello Stato sia nel rapporto con le autonomie territoriali, sia con l’Unione Europea, secondo il principio di sussidiarietà.
Perché il Veneto “locomotiva” che si è esposto chiedendo più controllo, deve dimostrarsi all’altezza delle aspettative. Ora dunque che i riflettori sono puntati addosso alla regione, la partecipazione democratica può fare la differenza per promuovere un vero sviluppo. Ma siamo davvero pronti?
«Il Veneto è più pronto di altri e lo giustifico con il risultato del referendum, che è stato un voto trasversale ai colori politici: il numero dei “sì” è stato superiore ai voti dati a tutte le forze politiche durante le ultime regionali, col recupero di persone uscite dall'astensione. Il Veneto, va detto, è una terra che ha dato per molti anni voti a un movimento, la Lega, che nasceva regionale e federalista; ma è altrettanto vero che l'esercizio dell'autonomia responsabile richiede non solo strutture amministrative capaci, ma anche una cultura collettiva diffusa. Per questo con Veneto Vivo vogliamo formare cittadini responsabili ed esigenti. Anche perché l’autonomia, poi, bisogna meritarsela».
Un laboratorio – così Simonetta Rubinato vede il Veneto – desideroso di mettersi in gioco, non disgiuntivo o separatista, a patto di essere nelle condizioni per poter sperimentare per sé e per l’Italia.
In una regione dove gli elettori contribuenti esercitano il controllo delle amministrazioni, in una terra in cui si è fatto di necessità virtù, dove parrocchie, volontari e amministratori fanno rete, dove “si fa più con meno”: «Pensiamo al tema delle scuole paritarie, che fanno risparmiare in Veneto mezzo miliardo di euro allo Stato – rimarca più volte l’ex sindaco di Roncade – e intanto le famiglie, oltre a pagare la retta, pagano anche le imposte. E mi preoccupa che nel preaccordo di fine febbraio non c'è una parola sul sistema delle scuole d'infanzia venete: trasferiamo le risorse per far sopravvivere queste realtà. L'Italia ha bisogno di un'istruzione all'altezza, in Veneto mancano insegnanti, personale Ata, con troppi dirigenti che hanno due o più reggenze».
Il tema dell’istruzione, dunque, tra le priorità che il governatore Zaia dovrebbe discutere con la ministra Erika Stefani.
Una sfida concreta da intraprendere con norme già attuabili ed eseguibili per quelli che sono i bisogni primari. Perché Rubinato predica attenzione e non si fida di una possibile legge delega, come prospettato in queste prime fasi di trattativa. Ripercorre oltre 20 anni di dibattiti e di norme sul federalismo fiscale, a partire dal decreto legislativo del 1992 che avrebbe dovuto prevedere una progressiva riallocazione delle risorse, mai partita: «La macchina centrale fa fatica a riformare se stessa: si parla della legge delega, ma poi c’è bisogno di norme attuative che restano nelle mani del governo. E il governo per farle deve durare, ma sarà chiamato a dare risposte sulle legge di stabilità e dovrà tener conto delle promesse elettorali fatte. Qui emergeranno le contraddizioni di Lega e Movimento 5 stelle: sovranismo non fa più rima con federalismo e cercare voti al Sud non è rispondere alla domande di federalismo del Nord. Emergerà un conflitto di interessi territoriali».
Eppure con nessun’altra formazione precedente si era arrivati a uno stato così avanzato o quanto meno ci si era messi comodi attorno a un tavolo preparando dossier e dimostrandosi recettivi.
Vent’anni fa, all’alba del 1998, ci fu chi aveva provato a liquidare gli apparati centralisti in favore di più federalismo e autonomia: “Centocittà”, il movimento dei primi cittadini, andava oltre i ranghi prestabiliti.
C’erano, per citare alcuni, l’Ulivo con Massico Cacciari, allora sindaco di Venezia, i federalisti con Raimondo Fassa, ma anche i cattolici con Guglielmo Minervini, sindaco di Molfetta. E poi? «Purtroppo quella energia e quel pathos che aveva visto il territorio guardare, con fiducia e voglia di rinnovamento, a questo progetto hanno sì portato alla riforma costituzionale del 2001, seppur pasticciata, ma poi si sono spenti. I partiti nazionali, anche il Partito democratico, hanno logiche interne per cui i territori sono stati progressivamente trattati come periferie e le fortune dei dirigenti politici sono dipese solo dal beneplacito centrale. Sono pochi i politici coraggiosi che fanno battaglie distaccandosi dal volere centrale. Ed è un paradosso che chi più intercetta le esigenze del territorio venga poi messo da parte».