Scienza. L'inventario dei rifiuti radioattivi in Italia. Dove sono le scorie?
L'ultima edizione dell'inventario, mette in luce i cambiamenti occorsi nelle strategie di gestione e propone una classificazione dei rifiuti radioattivi più efficace e precisa
Rifiuti radioattivi. In Italia, a dire il vero, non se ne parla poi molto (al netto di sporadici episodi di cronaca). Ma qual è la reale situazione nel nostro Paese? Ne dipinge un quadro a tinte “grigie” l’annuale (dal 2000 in poi) inventario nazionale – pubblicato lo scorso marzo e aggiornato al 31 dicembre 2017 – curato dall’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin). Il documento è compilato a partire dalla raccolta e organizzazione dei dati che i diversi gestori di rifiuti radioattivi (“proprietari” dei rifiuti e, di conseguenza, responsabili della loro conservazione) trasmettono all’Ispettorato. Esso, oltre a rappresentare uno strumento utile alle attività di vigilanza, permette all’Isin di elaborare e proporre misure compensative per le comunità locali che ospitano i rifiuti radioattivi, in base anche alla loro pericolosità. Quest’ultima edizione dell’inventario, per altro, unitamente al mettere in luce i cambiamenti occorsi nelle strategie di gestione, propone al tempo stesso una classificazione dei rifiuti radioattivi più efficace e precisa, caratterizzata da una maggiore accuratezza delle misure. Più specificamente, secondo i criteri ministeriali vigenti, l’inventario cataloga i rifiuti radioattivi in cinque categorie, in base alla loro attività: vita media molto breve, attività molto bassa, bassa attività, media attività e alta attività.
Uno sguardo ai numeri. In Italia, i siti che attualmente conservano rifiuti radioattivi – per una quantità totale di 30.497 metri cubi – sono 22, distribuiti in sette regioni.
E’ il Lazio ad ospitare la maggior quantità di rifiuti (9.241 metri cubi pari al 30,3% del totale), in particolare nell’impianto romano di Casaccia (gestito da Nucleco), che da solo ospita quasi 1/4 del totale nazionale! Seguono la Lombardia (19,3%), il Piemonte (16,7%), l’Emilia-Romagna (10,5%), la Basilicata (10,3%), la Campania (9,6%) e la Puglia (3,3%). Ovviamente tali percentuali sono riferite al volume dei rifiuti stoccati; ma certamente, il parametro di maggior rilevanza nella valutazione delle scorie radioattive è la loro attività. In base a questo criterio, è invece il Piemonte a detenere il primato di stoccaggio. Per fortuna, c’è da dire che la maggioranza dei rifiuti radioattivi ha un’attività bassa o molto bassa.
Quanto alla loro provenienza, la gran parte viene generata dalle attività del settore ospedaliero (inclusi i materiali che possono essere venuti a contatto con sostanze radioattive, come i guanti in gomma del personale sanitario, cotone, siringhe e altro), seguito da quello industriale.
C’è poi il capitolo riguardante le scorie radioattive derivanti dalle attività di bonifica di siti industriali contaminati accidentalmente (ad esempio, conseguenti ad incidenti di fusione di sorgenti radioattive). Generalmente, si tratta di scorie di fusione, polveri, ceneri, prodotti finiti, ma anche di materiali provenienti dalla bonifica di forni o camini contaminati. Vanno poi considerati quei materiali che, a causa di una mancata tempestiva rilevazione della presenza di radioattività, sono stati inconsapevolmente smaltiti in discariche convenzionali, provocando a loro volta una contaminazione radioattiva.
Riguardo il combustibile irraggiato ancora presente in Italia – circa il 10% di quello proveniente dalle quattro centrali nucleari nazionali dismesse -, l’inventario indica in 16 tonnellate la quantità di materiale ad alta attività, quasi tutte stoccate nel deposito “Avogadro” di Saluggia (Vercelli). Il restante 90%, in passato, era stato inviato nel Regno Unito e in Francia, per essere sottoposto a un particolare processo chimico che permette di recuperare l’uranio e il plutonio ancora utilizzabile. Residui e prodotti di fissione, invece, sono stati immobilizzati nel vetro (più resistente del cemento alla radioattività), e quindi stoccati in fusti che dovranno tornare nel nostro paese entro l’anno 2025.
“E’ quindi necessario – spiega Lamberto Matteocci, direttore vicario dell’Ispettorato – che l’Italia si doti della struttura di deposito idonea a ospitarli, nella prospettiva di smaltirli nel futuro in un deposito geologico multinazionale”. A parere degli esperti, comunque, ciò di cui il nostro paese necessita con urgenza è un deposito superficiale per smaltire in maniera definitiva i rifiuti a bassa e media attività e un deposito che immagazzini temporaneamente i rifiuti ad alta attività (come quelli che dovranno rientrare dalla Francia e dal Regno Unito). La tecnologia per realizzarlo è disponibile già da decenni; la procedura di individuazione delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il deposito nazionale si è conclusa nel 2015, ma… la carta nazionale non è mai stata pubblicata e rimane tutt’ora secretata! Continuano invece gli approfondimenti sulle caratteristiche sismiche dei siti eleggibili. Si riuscirà in breve tempo a completare la validazione della nuova lista di siti o sarà un “buco nell’acqua” anche stavolta?