Robert Peroni: “Difendo gli Inuit e la Groenlandia. Con il silenzio”
L’alpinista altoatesino di fama internazionale era andato anni fa in Groenlandia per testare dei materiali e lì si è fermato. Una scelta di vita, che - racconta - aiuta a comprendere il senso delle “cose” e a valorizzare le relazioni con le persone che ci circondano. Oggi ha un piccolo albergo ecosostenibile che dà lavoro alle famiglie Inuit e si batte per garantire loro un futuro. Sir rilancia l’intervista realizzata con Peroni dalla rivista di strada “Scarp de’ tenis”, pubblicata nel nuovo numero di novembre
Sono le tre di pomeriggio a Tasiilaq. Fa freddo Robert? “Ci sono tre gradi, fa abbastanza caldo”. Che cosa vede dalla sua finestra? “Dodici ghiacciai, un fiordo azzurro, un iceberg davanti al porto, nel mare bianco bianco. È una favola”. Parliamo via Skype. Un uomo con i capelli bianchi è dall’altro lato dello schermo, una felpa di pile, poche parole. Si dice solo il necessario. Si vive solo con il necessario. Si chiama Robert Peroni, è un ex alpinista di fama internazionale. Ha 75 anni, è altoatesino. E ha deciso di vivere insieme agli eschimesi. Da quarant’anni ha lasciato tutto, la carriera e la vita in Italia, e si dedica ai ragazzi Inuit che non sanno di cosa campare, in quella terra di vento e di ghiaccio. Vive in Groenlandia. E ha una missione.
La prima volta che è andato in Groenlandia fu per battere un record: le proposero di organizzare una spedizione nell’entroterra. Invece le ha cambiato la vita…
All’inizio non ci volevo neppure andare. Mi sentivo un topo in trappola: il mio lavoro era compiere grandi imprese, scalare montagne, testare materiali, ma avevo l’amaro in bocca. Sponsor opprimenti, finanziatori che esigevano risultati, troppo protagonismo di esploratori che erano sempre più atleti e sempre meno montanari.
Lei è nato nel 1944 sull’altopiano del Renon in Alto Adige. Ha vissuto la sua infanzia in montagna e poi a sei anni siete tornati a vivere in città.
Ma io e mio fratello soffrivamo troppo. A sedici anni abbiamo cominciato a scappare da soli sui monti. Prima con gli sci e poi per arrampicate. Io poi sono diventato un professionista. Ho sviluppato una specie di ossessione per il rischio. In tutto quello che facevo ero estremo. Mi sentivo libero. Poi ho conosciuto la Groenlandia e ho capito qualcosa che non sapevo: ho cominciato a sentirmi sempre più estraneo rispetto al mio vecchio mondo.
Nel suo libro “Dove il vento grida più forte, la mia seconda vita con il popolo dei ghiacci”, edito da Sperling e Kupfer e scritto insieme a Francesco Casolo, dice che gli Inuit le ricordavano le persone conosciute da bambino nei masi di montagna…
Persone che non avevano né acqua corrente né luce e vivevano le privazioni come del tutto normali. In Groenlandia si pesca quando si ha fame, si divide tutto quello che c’è in eccesso con il resto del clan e si mette il proprio talento a disposizione della collettività. In questa semplicità mi sembrava di ritrovare la vita.
Che cos’è la semplicità della vita?
È il silenzio. È la vita modesta. È una vita calma e gentile. Significa avere solo due pantaloni e due giacche e non avere il problema di scegliere cosa mettersi: si mette quella pulita. Se vivessi così in Italia sarei un emarginato.
In questa vita però il popolo degli eschimesi soffre. Non è vero?
Il popolo Inuit non si lamenta e non si lagna mai. Saltano i pasti anche per due o tre giorni, perché non hanno trovato foche da cacciare o non hanno soldi, e quando mangiano, ogni boccone è una festa. Ma non è per questo che soffrono: soffrono per l’arroganza con cui l’Occidente sta cambiando la loro vita.
Ci spieghi.
È una lunga storia. Qui si è sempre mangiata la foca. Sempre e solo foca. E la foca si mangia perché la si caccia. È una cosa normale, fa parte della cultura e della sopravvivenza di questo popolo. Alla fine degli anni Settanta il Wwf aveva intrapreso una campagna in difesa degli animali del Polo chiedendo ad alcuni Paesi di interrompere l’eccidio delle foche. Un’iniziativa lodevole. Che però ha danneggiato gravemente gli Inuit. Proibire la caccia, anche se poi è stata ripristinata, li ha segnati: la foca per loro era tutto, dava cibo e pelli, anche da esportare. Poi, la Danimarca ha cominciato a dare sussidi: una piccola rendita e una casa di cemento. Ma gli Inuit non cercavano soldi. Per secoli hanno cacciato e ora non avevano più nulla da fare: andavano a ritirare il sussidio e si ubriacavano.
Sembra una storia che si ripete: gli indiani d’America, gli aborigeni australiani…
E ora anche gli eschimesi: sono una minoranza ormai a rischio estinzione. È come se qualcuno avesse cominciato a imporre uno stile di vita a loro estraneo e a giudicarli per come vivevano. Sono aumentati i suicidi ma soprattutto le persone non sono state in grado di sopportare sentimenti come l’umiliazione, la delusione e la perdita di autostima.
Molti ragazzi hanno cominciato a venire da lei per parlare.
Quello che facevo era soltanto ascoltare. Passavo ore con i i ragazzi in difficoltà, giocavo a carte con loro, davo consigli basati sul buon senso, senza giudicare. Mi sono reso conto che potevo essere utile. Era strano per me: ero sempre stato un alpinista, un escursionista. Un giorno mi sono detto che dovevo prendere una decisione: ancora facevo avanti e indietro con l’Europa perché in Groenlandia non avevo una fonte di reddito. Dovevo scegliere: o rimanere per sempre o non tornare mai più.
Si è inventato “La casa rossa”: che cos’è?
Mi sono costruito una casa. E quella casa è poi diventata un albergo (www.the-red-house.com). Accogliamo turisti, ma non tanti: parliamo di circa 700 ospiti all’anno. Non vogliamo alterare l’ambiente, che è così delicato. Intorno a questa attività lavorano 70 collaboratori Inuit. Ognuno mantiene in questo modo la sua famiglia: significano 700 persone, un quarto della popolazione di Tasiilaq. Per me è una grande responsabilità.
E lei che cosa ha imparato?
La Groenlandia mi ha salvato. Questo posto mi ha calmato. Sono sempre stato irrequieto. Qui ho imparato cose che non sapevo. Sono diventato saggio. E ho imparato che il silenzio è più potente delle urla.
Stefania Culurgioni