Quindicenne ucciso a Napoli. Don Palmese: “C’è una pulsione alla violenza tra i giovani. Occorre ritornare ad un agire etico per il bene”
“Bisogna ripensare all’organizzazione del controllo della città da parte delle forze dell’ordine e aumentare sia in termini di prevenzione sia in termini di repressione risposte sempre più adeguate ai fenomeni, penso al mondo dell’educazione come pure al mondo della psichiatria, al mondo della psicologia e al mondo del Terzo settore che deve intervenire prima, durante e dopo in questa esperienza diseducativa dei ragazzi”, dice al Sir il presidente della Fondazione Polis
Violenza senza fine. Alle 2 di notte del 24 ottobre sulle strade di Napoli, in pieno centro, resta a terra, ucciso da colpi di pistola, Emanuele Tufano, 15 anni, incensurato. Le indagini sono in corso, ma da quanto trapela l’omicidio sarebbe maturato in uno scontro tra due baby gang rivali, della Sanità e di Piazza Mercato, per il controllo del territorio. Tra i fermati per questa triste vicenda, ci sarebbe un ragazzo già risultava indagato per un tentato omicidio. Tutta questa violenza tra giovanissimi è legata in qualche modo alla camorra? Ne parliamo con don Tonino Palmese, presidente della Fondazione Polis, che ha come mission il sostegno alle vittime innocenti di reato, alla promozione del riuso dei beni confiscati, alle nuove generazioni.
Questa violenza giovanile è figlia della camorra?
Se cadiamo nella trappola che tutto è camorra, allora niente è camorra. Il fenomeno della violenza giovanile è oramai così diffuso in Italia, non solo in Campania, da non aver radici solo nella criminalità organizzata, ha radici altre nel disagio, nella malattia, nella devianza, nella marginalità, nella marginalizzazione.
Voglio dire che a Napoli c’è anche la camorra, ma non è solo camorra.
Non a caso il quindicenne ucciso è un incensurato, allora non è un problema di bande camorristiche per il controllo del territorio, perché il controllo del territorio la camorra oramai lo ha raffinato sempre di più dal punto di vista strategico-militare. Quello che sta avvenendo come nel caso di questo ragazzo quasi certamente, dico quasi perché le indagini sono ancora in corso, è un problema di bande di ragazzi che per mostrare non la forza della camorra, ma la forza della violenza sono disposti a fare qualunque cosa.
Come rispondere a questa situazione?
Innanzitutto, Napoli è una città armata, quindi bisogna disarmarla, come ha detto l’attuale procuratore generale Aldo Policastro, quanto più e quanto più presto possibile.
L’altro aspetto è che i ragazzi sono abbandonati al loro destino. È chiaro che una città e un Paese liberi, democratici e civili possono essere abitati anche di notte, però la notte per chi il giorno dopo deve andare a scuola o a lavorare dovrebbe essere affollata di sonno e di sogni, questo quantomeno per i ragazzi.
Ma perché c’è tanta violenza tra i giovani? È un problema culturale, educativo o cosa?
Io non mi addentrerei tanto sulle cause né mi soffermerei sull’aspetto fenomenologico, perché le cause sono molteplici e complesse, ma mi addolora e mi rende impotente pensare che in uno dei luoghi dove i giovani vengono portati dopo questi atti di violenza – mi riferisco al carcere sia minorile sia quello degli adulti e affollato di giovani, che sono adulti solo dal punto di vista anagrafico ma non dal punto di vista esistenziale -, la prevalenza di questi giovani ristretti ha alle spalle non solo un disagio familiare, ma addirittura
una grande pulsione alla violenza,
che va anche al di là del disagio familiare. Dunque, questa grande pulsione alla violenza può esserci anche quando il disagio familiare non è la prima causa. Il povero ragazzo Emanuele Tufano ucciso l’altro giorno non viene da una situazione di disagio familiare, eppure si è scontrato con questi ragazzi alle due di notte nel cuore della città. La pulsione della violenza è diventata così diffusa e grave che c’è bisogno di un intervento e di un progetto sempre più culturale e sempre più psichiatrico. Non è naturale che un ragazzo abbia queste pulsioni così violente eppure si sta sviluppando questa violenza tra i ragazzi di tutti i ceti. Lo dimostra il Paese Italia, non solo quanto succede nella Campania e a Napoli.
Ma se queste sono le difficili premesse, come si disarmano i ragazzi a Napoli e, in generale, in tutta Italia?
Bisogna ripensare all’organizzazione del controllo della città da parte delle forze dell’ordine, non perché non ci siano, ripensarlo significa sì un maggior numero di uomini e donne delle forze dell’ordine, ma anche un ripensamento organizzativo e distributivo sul territorio. Si ha questa percezione di impunità perché il territorio non appare controllato, sottolineo che “appare” perché non è che non sia controllato realmente. L’altro aspetto è quello di
aumentare sia in termini di prevenzione sia in termini di repressione risposte sempre più adeguate ai fenomeni, penso al mondo dell’educazione come pure al mondo della psichiatria, al mondo della psicologia e al mondo del Terzo settore che deve intervenire prima, durante e dopo in questa esperienza diseducativa dei ragazzi.
Quindi in quest’ultimo caso la violenza avvenuta non c’entra con la camorra?
Potrebbe non entrarci, il pericolo è questo: se a Napoli si etichetta che tutto è camorra, alla fine, filosoficamente parlando niente è camorra, come dicevo prima.
Ma questa pulsione alla violenza tra i giovani ha una ricaduta nella camorra?
Oggi più che mai la camorra ha bisogno di giovani a suo servizio, ma ha bisogno ancor di più di fini commercialisti per organizzare il proprio business.
La camorra, che esercita anche un controllo territoriale, come si pone di fronte a questa violenza giovanile? Permette che succeda?
Questo ci dimostra ancora di più che la violenza dei giovani non è più quella di qualche anno fa, quando i ragazzi dovevano chiedere il permesso alla camorra per spadroneggiare sul territorio.
Oggi sono cani sciolti.
Alla camorra, interessata dagli affari, la violenza sul territorio non conviene, in realtà…
Non fa comodo, ci mancherebbe altro, perché significa portare l’attenzione sul territorio da parte delle forze dell’ordine e della società civile, tanto da diventare ostacolo al malaffare.
È chiaro che anche nel carcere minorile ci sono ragazzi che sono stati arrestati per appartenenza non solo a banda armata, ma anche alla criminalità organizzata, quindi è evidente che il fenomeno c’è, c’è sempre stato,
ma in passato non diventava né oggetto d’indagine al punto di “dimostrare che”, né oggetto da parte della giurisprudenza e quindi della stessa magistratura al punto di “condannare per”. Oggi le investigazioni e i giudizi sono così più lucidi e avanzati da poter dire che ci sono ragazzi che vengono arrestati anche per appartenenza alla criminalità organizzata. La violenza ha a che fare con la criminalità organizzata ma, allo stesso tempo, è totalmente altra dalla criminalità organizzata. Sono due facce di una stessa medaglia.
Quando negli istituti penitenziari minorili si trovano insieme ragazzi appartenenti alla camorra e ragazzi violenti tout court c’è il rischio di una “contaminazione”?
Il pericolo c’è sempre, perché quando vivi in una realtà ristretta e circoscritta come il carcere la contaminazione è dietro l’angolo: lo è nella scuola, lo è nel quartiere, lo è dappertutto, anche nei casi di contaminazione positiva. Dunque, nel carcere il pericolo di contaminazione c’è, ma non è la contaminazione di una volta. Per esempio, un ragazzo poteva finire in carcere per aver compiuto reati minori o perché era poco disciplinato. E, una volta in carcere, come si diceva un tempo, era entrato all’“università del crimine”.
Credo che oggi i ragazzi siano già abbastanza “laureandi e laureati nel crimine”.
In un contesto così complesso una speranza da dove può venire, non solo per Napoli?
La speranza prima ed ultima, poi in mezzo c’è bisogno di tanti interventi, è di natura etica e, quando dico etica, significa che i ragazzi possano nascere, crescere e vivere in un contesto che non sia eticamente neutro, quello dove si dice “decidi di non decidere”, ma in contesti dove l’etica ci permetta di capire qual è l’agire giusto, ma soprattutto l’agire condivisibile per il bene e non per il male.
La dimensione non etica è trasversale ai quartieri più poveri e disadattati, da un lato, e alle zone più ricche e agiate, dall’altro.