Privatizzazioni. Roma (Rur): “Vanno viste caso per caso, fondamentale è l’imprenditorialità”
La vicenda della revoca delle concessioni autostradali e il travaglio per assicurare un futuro ad Alitalia hanno riaperto per l’ennesima volta il dibattito sulle privatizzazioni e liberalizzazioni attuate in Italia negli ultimi decenni. Dei possibili sviluppi ne abbiamo parlato con il professor Giuseppe Roma, già direttore generale del Censis e fondatore della Rur (Rete urbana delle rappresentanze)
“Serve una valutazione oggettiva della situazione e privatizzazioni e liberalizzazioni vanno viste caso per caso. Questo vale per Alitalia, per le concessioni autostradali, per tutto il resto”. Parte da qui il professor Giuseppe Roma, già direttore generale del Censis e fondatore della Rur (Rete urbana delle rappresentanze), per fare il punto su successi e insuccessi delle privatizzazioni in Italia.
Professore, dal 1992 l’Italia ha imboccato la strada delle privatizzazioni. È stata una scelta giusta ed efficace?
Le privatizzazioni nel nostro Paese sono state avviate in un momento difficile, perché dovevamo entrare nell’Euro e avevamo problemi di debito e di deficit. Quando hai bisogno di soldi devi vendere degli asset appetibili perché nessuno ti compra un costo.
Talvolta, le privatizzazioni le abbiamo fatte anche in maniera anticipata: per esempio, non si capisce come un Paese che molto spesso ha degli eccessi di corporativismo abbia liberalizzato e privatizzato, penso alle ferrovie, prima dei partner europei. Nel dare in concessione i binari ad un privato, Italo, l’Italia è stata la prima a fare una cosa del genere in Europa. E, possiamo dire che è non andata male, anzi, è stato uno stimolo perché il pubblico migliorasse: oggi Trenitalia con l’alta velocità è più competitiva di quanto fosse prima. E francamente penso che non abbiamo uno Stato che si fa rimpiangere nella gestione.
E sulle autostrade qual è il giudizio?
Sulle autostrade c’è un grande equivoco, perché non sono mai state statali ma sono sempre state una concessione La Società Autostrade era una società autonoma, concessionaria anche se di proprietà totalmente pubblica.
Il Ponte Morandi è stato un dramma nazionale, però se noi guardiamo le strade statali e le autostrade non c’è paragone.
Anche se necessitano di manutenzione, queste ultime sono pienamente tenute bene.
L’attuale concessionario è però accusato di non aver fatto manutenzione?
Il meccanismo legato al conto economico è ambiguo: da un certo punto di vista c’è il profitto e l’utile d’impresa, e quindi l’impresa potrebbe essere indotta a non gestire bene quel patrimonio; ma, d’altra parte, l’impresa è costretta a gestirlo bene perché se non ha clienti il suo reddito non c’è. Questo per lo Stato non vale, perché può andare in deficit.
Quindi le privatizzazioni possono essere considerate un successo?
In realtà, io non sono per le privatizzazioni perché non può essere quella del “privatizziamo tutto” la ricetta.
Oggi bisogna tener conto che c’è un ritorno alla dimensione pubblica, a ri-pubblicizzare, per far fronte a difficoltà come nel caso di Alitalia o di Telecom-Tim. Ma siamo in una situazione diversa dal passato. Negli anni ’50 l’Italia aveva bisogno dello Stato perché non aveva dei capisaldi importanti che potessero dare un contributo allo sviluppo nazionale.
Con la competizione attuale ci sono diversi fattori che portano necessariamente verso l’imprenditorialità.
La Ratp, l’azienda di trasporti parigina, è di proprietà dello Stato francese, neanche della città di Parigi. Ma nessuno se ne accorge, perché è un’azienda che funziona a vantaggio dei cittadini.
In Italia l’opinione diffusa è quella opposta…
Per noi, il concetto di impresa pubblica è stato quello di una realtà che garantisce l’occupazione, con contratti a volte migliori di quelli del privato. Oggi, tutto questo è impensabile, in un Paese nel quale non è detto che la gestione pubblica ottenga maggiori risultati. Il vero problema delle privatizzazioni è il concedente, non tanto il concessionario. E troppo spesso il concedente non esercita il suo ruolo, quello di controllare e verificare.
Un altro settore tornato recentemente al centro dell’attenzione è quello dell’acqua…
L’acqua pubblica è di tutti alla fonte. Per portarla nelle case e per depurarla dai residui ci vuole un processo industriale. Può essere pubblico o privato, ma resta un processo imprenditoriale. Oggi il servizio idrico è grandemente in mano ad aziende pubbliche.
L’idea che il pubblico sia l’ente pubblico, cioè che ci sia la gestione diretta, non penso siamo in grado di metterla in pratica.
L’acqua è un bene primario, ma abbiamo migliaia di gestioni comunali.
Periodicamente torna nel dibattito pubblico l’idea di nazionalizzare servizi di pubblica utilità. Sono boutade legate a fatti contingenti o è davvero giunto il tempo di aprire una seria riflessione su cos’ha funzionato e cosa no?
Rispondo con un’altra domanda: c’è oggi qualcosa in Italia per il quale il dibattito pubblico rifletta in maniera approfondita sulle prospettive e non in base alla dimensione emotiva o contingente?
Nessuno fa un ragionamento a mente fredda su quali sono i beni pubblici che vanno tutelati. In ogni caso, il requisito è l’imprenditorialità. Per esempio, i gestori del servizio di trasporti locali, che sono oggi una parte importante dell’economia, devono essere gestori imprenditoriali, che devono fare bene il proprio lavoro. E non possono che farlo insieme ai Comuni.
Quali aspetti negativi individua nelle “privatizzazioni all’italiana”?
Uno degli effetti più negativi delle privatizzazioni è l’aggressività commerciale delle imprese che fanno utilities, cioè telecomunicazioni, gas, energia. L’unica funzione che viene sviluppata è quella del marketing.
Nessuno produce più energia, tutti la vendono e siamo tormentati da queste offerte. Questa è una distorsione del meccanismo.
Alberto Baviera