Oltre Prigozhin: se Machiavelli serve a capire il Cremlino. Nota geopolitica
All’indomani della Marcia della Giustizia di Prigozhin, alcuni commentatori hanno ricordato la lezione di Machiavelli sui mercenari: inaffidabili, potenziali eversori, voltagabbana pronti a vendersi in cambio di migliori ingaggi.
All’indomani della Marcia della Giustizia di Prigozhin, alcuni commentatori hanno ricordato la lezione di Machiavelli sui mercenari: inaffidabili, potenziali eversori, voltagabbana pronti a vendersi in cambio di migliori ingaggi.
A dirla tutta, il segretario fiorentino preferiva la milizia civica non solo perché più controllabile, ma anche perché, educando alle virtù belliche di coraggio e fedeltà, disporrebbe il popolo a stringersi armi in mano attorno al governo della patria. È poi difficile assumere la Wagner – al pari dell’antesignana Balckwater statunitense – come compagnia mercenaria: milizia sì privata, ma nazionale e monomandataria non altrimenti assoldabile.
Quella di Prigozhin è parsa una reazione semi-golpista al disegno di Shoigu di inquadrarla nell’esercito regolare. Nonostante l’interruzione a 200 km da Mosca, avrebbe comunque svelato la debolezza del Cremlino. Eppure non mancano punti oscuri. Fermarsi per evitare un “bagno di sangue”: l’ipotesi non era preventivata annunciando la guerra civile? Curiosi i contatti costanti tra Prigozhin e Fsb, con la polizia a scortare i (non molti) rivoltosi in marcia. Quali le speranze nutrite, quando sarebbe bastato qualche bombardiere a disperdere la colonna sull’autostrada? Inoltre, per fare leva, sarebbe stato più utile minacciare in un frangente militare critico, non quando la controffensiva ucraina non sfonda e conquista 35 kmq di territorio a fronte dei 61 di nuovo suolo preso dall’esercito russo. Lascia perplessi l’intervento “dirimente” del vassallo Lukashenka, come pure la scelta di Prigozhin di desistere accettando una situazione analoga a quella contro la quale protestava. Forse si attendeva una sollevazione che non c’è stata. Oppure è stato uno scatto d’orgoglio, per uscire di scena con l’onore delle armi.
Sia come sia, ora i wagneriti trasferiti in Bielorussia allestiscono accampamenti. Dopo l’ipotesi della confinante Polonia di intervenire in guerra in caso di fallimento della controffensiva. E dopo che Putin, di fronte alla delegazione di pace africana, aveva sventolato il documento che conterrebbe l’accordo del 2022 per cui le truppe russe accettarono di allontanarsi dalla capitale ucraina in cambio di concessioni poi disattese dalla controparte a seguito della visita di Boris Johnson. Si potrebbe pensare che la ricollocazione in Bielorussia serve a minacciare di attacco da nord sulla vicina Kiev, con le forze ucraine sbilanciate altrove. Difficile dire se abbia giocato una simulazione/dissimulazione machiavelliana, resta che il dislocamento wagnerita a Minsk è avvenuto sotto l’ombrello del motto napoleonico “non disturbare il nemico mentre sbaglia”, per cui gli ucraini non hanno sparato sui “ribelli” in movimento.
Limitandoci ai fatti consequenti, si può dire però che il Cremlino ha testato la tenuta degli apparati e dell’opinione pubblica rinsaldata dal pericolo, vantando altresì il credito di una soluzione incruenta. Non del tipo invocato tipicamente dai falchi, che per l’Ucraina chiedono la guerra totale con bombardamenti shock and awe stile Baghdad. Falchi che vedevano in Prigozhin un proprio alfiere: dettaglio marginale per gli analisti che, nelle ore della Breve Marcia, davano uno Stato in rotta stile 8 Settembre italiano tifando per il fu Macellaio seguendo la logica del “tanto peggio tanto meglio”.
Se c’è stata una lezione di Machiavelli apparentemente seguita nella vicenda – impossibile stabilire ora con quale efficacia – essa consiste nel consiglio al Principe di concentrare il potere sbarazzandosi al momento propizio delle contese tra oligarchi subalterni e del loro debilitante fazionalismo privato. Sembrerebbe questa la strada imboccata da Putin, non solo nei confronti di Prigozhin: stringere di nuovo la morsa sul sistema di potere semifeudale ereditato, più che da Eltsin, dalla statualità russa in radice afflitta da modernizzazione tardiva. E cercare così di domare la fortuna con spregiudicata virtù, appunto, machiavelliana.
Il caso (altra categoria di Machiavelli) poi ha meglio chiarito gli intendimenti degli attori esteri. La Cina ha espresso pieno sostegno alla Federazione: non a Putin, ma allo Stato, identificando quest’ultimo con il regime politico. Ciò significa molto più che schierarsi con una parte contro l’altra. Mentre von der Leyen ha proposto un fondo strutturale da inaugurare con altri 50 mld per armare l’Ucraina, Borrell si è detto preoccupato dalla destabilizzazione: il pensiero va alle testate nucleari, che per via del clima da cortina di ferro non sono più censibili secondo i passati accordi. Ciò in linea con quasi tutti i governi Ue. Non con Varsavia, che da un anno vagheggia scenari di smembramento russo. E neanche con Praga, da dove il presidente Pavel lancia l’idea di restringere i cittadini russi all’estero sull’esempio dei campi destinati dagli Usa nel 1941 agli cittadini di origine giapponese (ma allora noi europei siamo davvero in guerra?). Con Borrell invece ha concordato la Francia che, spenti i clamori sull’instabilità russa, ora fronteggia la propagazione dei disordini detonati come protesta contro gli abusi dell’autorità al pari di diverse “primavere”, raccogliendo l’espressione violenta di un più profondo malessere sociale.
Con le sue cautele sul caso Prigozhin, Washington mostra di non auspicare azzardi. Al Pentagono vige l’equivalenza tra cedimento russo ed egemonia cinese in Asia. Presidenziali alle porte, Biden fa i conti con un elettorato sempre meno convinto della sua politica estera e con i malumori delle compagnie che vedono troppo lontani i cantieri della ricostruzione ucraina. Sicché invia a Kiev chi possa chiarirgli i tempi della riconquista e frena sull’ingresso nella Nato, mentre il ministro ucraino Kuleba sulle tv europee invita all’audacia, spiega che non serve la mediazione del Papa e, escludendo un referendum per l’autodeterminazione dei russofoni dell’est, minimizza sul nodo della riconciliazione nazionale.
Il nodo invece risulta dal videomessaggio diffuso da Jacenjuk, a luglio 2022 nominato a guida dell’intelligence (Sbu) al posto di Bakanov, annoverato dai Pandora Papers in una rete finanziaria offshore riferita all’oligarca Kolomojskij, titolare dei diritti della serie Servo del Popolo e sovventore del partito omonimo. Commentando filmati di bambini ucraini in formazioni emule della Hitlerjugend, Jacenjuk denuncia la nazificazione in atto. A capo degli esteri e del parlamento (2007-8) sotto il filoccidentale Jushenko, primo ministro (2014-16) di Poroshenko secondo le istruzioni di Victoria Nuland che, nella celebre telefonata durante Euromaidan, indicò in Jacenjuk il premier voluto dagli Usa: stante lo sponsor, egli non teme epurazioni né parla a titolo personale. Segno che, da Mosca o Washington, le ingerenze restano – usando Machiavelli – una “verità effettuale” costante per Kiev.
Giuseppe Casale*
*Pontificia università lateranense