Oliva Denaro e la storia delle donne che dicono “no”: alla violenza e non solo
Intervista a Viola Ardone, già autrice de “Il treno dei bambini”, ora alle prese con un'altra storia italiana: quella che, dal sud della penisola, è arrivata fino ai banchi del Parlamento, per dire che la donna non si compra e la violenza non si “ripara”
“Oliva Denaro” è una donna che ha in mente un “no” e, sulla sua pelle, impara a pronunciarlo. E' il “no” a un uomo che la pretende e pensa che questo basti ad averla. E' il “no” ai tanti che le dicono che conviene cedere, che un uomo facoltoso è un colpo di fortuna, che l'amore non conta e forse non esiste. Oliva Denaro vive in Sicilia e ha un'amica che l'accompagna e la sostiene a dire quel “no”; ha una sorella, Fortunata (di nome, non di fatto) che per dire “sì” è finita prigioniera in casa di un uomo violento; ha un padre che, timidamente, dice di “non preferire”, ma non è ancora in grado di opporsi, di rifiutare un modello nel quale è nato e cresciuto.
Oliva Ardone subisce un atto di violenza e lo trasforma in un atto di coraggio: il coraggio, appunto, di dire e ripetere quel “no” per molti impensabile in Italia, specialmente nel Meridione. Viola Ardone racconta una nuova storia, nell'ultimo libro pubblicato da Einaudi: la storia di un'Italia alla vigilia della legge sul divorzio, ancora immersa in una cultura in cui le donne avevano il destino segnato, deciso da altri; una cultura in cui il matrimonio non aveva niente a che fare con l'amore e perfino la violenza più brutale si poteva “riparare”. Redattore Sociale, alla vigilia della Giornata contro la violenza sulle donne, ha intervistato Viola Ardone, già autrice del grande successo “Il treno dei bambini”.
Oliva Denaro e Viola Ardone: cos'hanno in comune, oltre alle lettere che compongono nome e cognome?
In Oliva Denaro c’è un po’ del mio carattere, del mio modo di reagire ai soprusi e alle ingiustizie. C’è il mio senso di giustizia ma anche la mia tendenza a vedere sempre “la vita in rosa” e a essere fin troppo fiduciosa nel prossimo, a volte quasi sprovveduta. Spesso poi è capitato anche a me di avere difficoltà a pronunciare un “no”, ma quando l’ho fatto mi sono sentita liberata. Nel nostro vocabolario esiste una parola specifica, un neologismo per indicare l’assassinio di una donna da parte di un uomo: il “femminicidio”. Questo significa che l’idea del possesso (che si vuol far passare per “amore”) di una donna è ancora radicato nell’immaginario di alcuni uomini, i quali non sono capaci di accettare un “no” come risposta. Quel “no” fa scattare ancora oggi la molla della violenza, il desiderio di eliminare fisicamente la donna che lo ha pronunciato, di cancellarla letteralmente dalla faccia della terra.
Dall'adesione agli schemi al tentativo di liberazione e riscatto: come vivono questo passaggio i protagonisti del libro?
Ci sono tanti personaggi femminili in questo libro. Liliana, che è l’amica del cuore di Oliva, ha la strada già spianata: il padre è “il” comunista del paese e per lei certi discorsi e certi ragionamenti sono più a portata di mano. Per Oliva e sua sorella Fortunata riuscire a oltrepassare gli stereotipi è molto difficile, devono pagare di tasca propria, sulla loro pelle per poter arrivare a un cambiamento. Da questo punto di vista il loro “no” vale molto di più. Eppure tengo a sottolineare che anche i personaggi maschili si liberano dall’oppressione degli stereotipi, anche per loro essere “maschi” in quell’epoca significa dover dimostrare al mondo di essere: forti, coraggiosi, duri, decisi, virili...
La legge sul divorzio è tra i “protagonisti” del libro: quale legame pensi ci sia tra questa e la lotta contro la violenza sulle donne?
La legge sul divorzio arriva in Italia solo nel 1970 e dopo lunghe lotte in parlamento, tanto è vero che nel 1974 venne sottoposta a referendum abrogativo, che poi non passò. Può sembrare strano ma coloro che vi si opponevano, in politica, lo facevano anche per tutelare la donna: immaginavano che una divorziata non avesse alcuna possibilità di sopravvivenza (sociale, economica, affettiva) al di fuori del matrimonio, seppur violento o privo di amore, che finisse come una sbandata, senza una precisa collocazione sociale. Quella legge fu importante, certo, ma lo sono stati ancora di più altri movimenti che lentamente hanno portato la donna all’emancipazione, come l’ingresso nel mercato del lavoro, l’accesso a pubblici uffici precedentemente interdetti (solo dal 1963 le donne possono diventare magistrate, ad esempio), la legge sulla contraccezione e sull’aborto, che erano stati a lungo illegali. È attraverso questi passi che la donna ha avuto la possibilità di esistere anche fuori dal matrimonio.
Nel libro, ci sono uomini antagonisti, ma anche uomini che partecipano, più o meno timidamente, al percorso di emancipazione delle donne. Quale pensi sia stato il ruolo dei “maschi” nel superamento di alcuni schemi?
Lo ripeto: io sono convinta che gli uomini abbiano bisogno del medesimo movimento di liberazione, che è parallelo a quello delle donne, anzi ad esso intrecciato. Anche per loro liberarsi dagli stereotipi e dai condizionamenti sarebbe una forma di alleggerimento rispetto a ruoli che ancora oggi sono molto codificati. Quello che resiste però è una lobby di potere ancora molto maschile, gli uomini sono ancora saldamente ancorati a posizioni apicali in diversi ambiti, dall’economia alla politica. E qui le donne devono dare una spallata in più per farsi spazio.
“Non lo preferisco” è una delle frasi che ricorrono nel libro. Che significato ha questa frase, pronunciata da un padre?
Significa volersi sottrarre da codici e dinamiche standardizzate, prendere un’altra strada. Salvo Denaro, il padre di Oliva, non è un ribelle o un contestatore: non dice “bisogna fare così”. Ma ha la capacità di non allinearsi, agisce una sorta di “resistenza passiva” rispetto al ruolo che gli viene imposto dalla società dell’epoca, rispetto ai comportamenti che ci si aspetta da lui. È un uomo che lavora per sottrazione: non lo preferisco. Come a dire: “Voi fate pure, ma io non ci sto”.
Gli uomini vicini a Oliva – escluso il padre – hanno entrambi una disabilità: da una parte Saro, zoppo, dall'altra Franco, cieco. Perché questa scelta?
Con Franco, l’uomo con cui Oliva a un certo punto viene fidanzata per procura e a sua insaputa, mi interessava esplorare una relazione tra uomo e donna che non passasse per gli occhi. Lui è non vedente e questo inizialmente turba Oliva, poi invece la rassicura perché sente di non dover sottostare al suo giudizio e perché avverte che gli occhi degli uomini del suo paese sono come mani che frugano, i loro sguardi sono pesanti, spesso molesti. Franco è differente proprio in virtù di questa sua caratteristica. Le appare come un uomo privo di quella “mascolinità tossica” da cui ha imparato a diffidare. Saro è l’amico di infanzia e soffre di una leggera zoppia. Il loro rapporto si consolida anche perché Oliva lo difende dagli scherzi e dalle offese dei coetanei, fin da quando sono entrambi bambini. I loro ruoli (maschile/femminile) sono scambievoli: tra i due non c’è il maschio che difende la femminuccia che subisce. Oliva insieme a Saro si sente forte ma non perché crede che lui sia debole. Mi sembra che abbiano fin da piccoli un rapporto paritetico e veramente solidale.
Oggi, secondo te, quante “Oliva Denaro” esistono in Italia, intente a dire dei “no” ancora difficili e faticosi? E in quali contesti le troviamo più facilmente?
Ce sono tante e subiscono le conseguenze dei loro “no”. Molte di più forse ce ne sono che non hanno ancora imparato a dire “no”, per paura, per condizionamenti sociali, per carattere. Il mio romanzo è dedicato proprio a loro. Non bisogna vergognarsi di aver detto troppi “sì”: a dir di “no” si può sempre imparare.
Questa, come “Il treno dei bambini”, è una storia tutta italiana: lì erano i figli a subire le conseguenze della povertà economica, qui le donne a battersi per superare una povertà culturale. Perché è importante raccontare storie come queste?
Non so se è importante, so che queste storie sono state importanti per me, mi hanno incatenato alla pagina, hanno voluto fortemente essere scritte, e alla fine l’hanno spuntata!
Come insegnante, ti sembra che la scuola riesca a raccontare queste storie, o pensi che dovrebbe farlo di più?
Credo che la scuola dovrebbe dare più spazio a materie come la Storia e l’Educazione civica, che vengono costantemente sacrificate. Mi piacerebbe anzi che ci fosse una disciplina a sé: “Storia dei diritti, dall’antichità ai giorni nostri”, per insegnare ai più giovani che leggi nemmeno ipotizzabili fino a pochi anni fa oggi fanno parte del nostro sistema sociale e giuridico e per accendere la loro immaginazione verso il futuro.
Chiara Ludovisi