Ogni parola rivela la cifra autentica di chi la pronuncia
Senso alle parole. «Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”. Il di più viene dal Maligno».
«Occorre sempre – nella comunità internazionale come all’interno di ciascun Paese – rifuggire da parole di ostilità e di contrapposizione; contrastarle e rimuoverle. E ascoltare, invece, e far proprie, parole di concordia».
Con questa chiosa il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione del concerto in onore del corpo diplomatico accreditato presso lo Stato italiano, ha suggellato le settimane febbrili che hanno preceduto la formazione dell’ultimo (?) governo. Apparentemente sembra quasi una provocazione.
Con tutte le turbolenze passate durante questa crisi politico-istituzionale, attraverso passaggi critici che hanno stressato sensibilmente il tessuto civico del nostro Paese, il Presidente trova il tempo per richiamare l’urgenza di un’ecologia del linguaggio, a partire dalla qualità delle parole che si usano. E invece, il saggio garante della nostra Costituzione ha voluto illuminare proprio una delle radici profonde del disagio che stiamo vivendo: non dare più il giusto peso alle parole.
Una tentazione che non riguarda soltanto l’ambito politico, ma sta sempre più manifestandosi nelle quotidiane relazioni sociali, finanche in quelle interpersonali.
Anche quando non sono sfacciatamente offensive, spesso le parole che vengono utilizzate perdono il loro senso, tendono a evaporare e a distaccarsi dalla realtà di cui parlano. Parole in libertà, alternative alle cose. Parole, che creano una realtà virtuale slegata dalla verità o quanto meno dalla ricerca della verità. Ma se non c’è legame con la ricerca della verità (che sempre ci precede e ci supera), le parole divengono strumenti per affermare interessi di parte o brama di potere.
Nascono così i “giochi di parole” per fomentare, per adulare, per ingannare. In questo gioco d’azzardo, le parole sembrano perdere sempre più valore, al punto da far sembrare fuori luogo l’indignarsi dinanzi a esse. Chi si oppone a discorsi falsi, vuoti, o peggio intollerabili, viene invitato a non esagerare, a «contestualizzare l’espressione nell’ambito della situazione specifica o del particolare genere letterario». Insomma, non fare di una mosca un cavallo.
E così, con il passare del tempo, ci si abitua a tutto: notizie gonfiate o del tutto false, offese gratuite e degradanti, turpiloquio, pettegolezzi infamanti e non comprovati. Con la complicità di strumenti di comunicazione che hanno disintegrato i tempi della riflessione critica, viviamo in un contesto comunicativo dove si può dire tutto e il contrario di tutto, nell’arco di una giornata: si può prendere un solenne impegno e rimangiarselo seduta stante.
Nessuno mette in discussione il sacrosanto diritto di cambiare idea o opinione. Semplicemente avere il pudore di riconoscere pubblicamente l’errore commesso, e poi fugare ogni dubbio sul fatto che il cambiamento non sia avvenuto per mera convenienza.
Tornare a dare senso e valore alle parole, significa rimettere al centro del vivere comune il principio di responsabilità. Rispondere dinanzi a se stessi e agli altri di ciò che si dice, perché quanto esce dalla nostra bocca non è mai irrilevante.
Le parole sono “pietre”: possono costruire o demolire. Con le parole noi possiamo concorrere a edificare un mondo bene-detto o meschinamente guastarlo rendendolo male-detto. Ogni parola rivela l’autentica cifra di chi la pronuncia. «Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno» (Mt 5,37).
Stefano Bertin