Missione in Etiopia. Per le strade di Robe, nella vita delle persone

Dopo la visita in Etiopia del vescovo Claudio a fine 2019 nella Prefettura di Robe, i tre missionari fidei donum, don Nicola De Guio, don Stefano Ferraretto ed Elisabetta Corà, muovono i loro passi in una terra che li accoglie con benevolenza e dove molto resta ancora da capire.

Missione in Etiopia. Per le strade di Robe, nella vita delle persone

Si sentono come tre esploratori don Nicola De Guio, don Stefano Ferraretto ed Elisabetta Corrà, che da gennaio 2019 guidano la missione padovana nella Prefettura apostolica di Robe in Etiopia. E così li aveva definiti anche il vescovo Claudio di ritorno dalla “visita pastorale” dello scorso novembre in cui si era reso maggiormente conto del contesto culturale e sociale in cui la Chiesa di Padova si trova a operare.

«Ci pensiamo come i trent’anni di Gesù trascorsi in Galilea, pressoché assenti dal vangeli, ma essenziali per l’annuncio del Regno» scrivevano nella Difesa dell’1 dicembre scorso all’indomani della visita del vescovo Claudio, accompagnato dal direttore dell’Ufficio missionario diocesano don Raffaele Gobbi. Ed è proprio con questo stile che camminano lungo le strade di Adaba, dove da qualche mese ha sede la missione (prima era a Kofale), di Dodola e Kokossa. «Dopo la visita del vescovo – racconta don Nicola De Guio, che da febbraio è vicario generale di Robe e parroco di Kokossa – ci siamo organizzati in base alle sue indicazioni per seguire le attività parrocchiali, approfondire la lingua degli Oromo sempre mettendo al centro la relazione. Stiamo dunque avviando tutto lentamente, andando a trovare le famiglie, proponendo qualche incontro di formazione e celebrando la messa insieme».

In una regione dove il 95 per cento della popolazione professa l’Islam, i cristiani sono una minoranza assoluta. A dirlo sono soprattutto i numeri delle comunità affidate alla Chiesa di Padova: ad Adaba sono una trentina i cristiani e la messa domenicale è frequentata da una decina di persone; la comunità di Dodola, di cui don Stefano Ferraretto è parroco, conta una quindicina di cristiani che si ritrovano alla celebrazione eucaristica. A Kokossa invece i numeri sono leggermente più considerevoli: i cristiani sono un centinaio, ma la vita della comunità è vissuta da una cinquantina.

Come si riesce, dunque, a stare dentro a questo mondo completamente diverso dal contesto culturale e religioso in cui si è cresciuti e maturati nella fede? «Ce lo chiediamo sempre. Proveniamo da schemi robusti di fede e siamo inseriti in un ambiente non ostile che ci accoglie in pace. Essere minoranza ci spoglia di tante certezze e ci fa cercare ancora più a fondo il senso della nostra missione».

La quotidianità di don Nicola, come quella di Elisabetta e don Stefano, è fatta di piccoli passi, ma anche di inevitabili “buchi nell’acqua” che comunque non scoraggiano. «Tempo fa ero stato a trovare a cento chilometri da Adaba due persone che avevano espresso il desiderio di diventare cristiane. Avevamo lì concordato un altro incontro, perché ovviamente non esistono comunicazioni rapide come il telefono: il catechista e io siamo tornati e non li abbiamo trovati. Erano al confine a lottare per la terra da coltivare. Non mi sono demoralizzato, ma ho capito una volta di più che è comprensibile nella loro cultura: ci sono cose che vengono prima e noi dobbiamo inserirci qui, stare loro accanto, capire di che cosa sono fatte le loro giornate».

La Chiesa cattolica, seppure così piccola, è un interlocutore importante nella costruzione della giustizia sociale e del dialogo. «Poco tempo fa – continua don Nicola – don Stefano ha partecipato a un momento di riappacificazione tra etnie differenti: erano presenti vari rappresentanti civili e religiosi. Sebbene don Stefano non comprendesse la lingua, la sua presenza è stata ugualmente importante per sancire la volontà di pace». È proprio ciò che viene richiesto ai missionari in questo momento: esserci, stare dentro alla vita di tutti i giorni, in maniera silenziosa a volte, rispettosa e dedicati al dialogo reciproco e alla comprensione profonda.

La Quaresima è un tempo molto diverso da quello che vive la Chiesa in Italia: i missionari hanno proposto alcuni incontri di ascolto della Parola perché non è semplice incontrarsi, seguire tracce più consistenti di cammino verso la Pasqua. Eppure Elisabetta Corà si sente a casa: «Dopo più di un anno in questa terra non potrei sentirmi più al mio posto di così. La grazia che dona il tempo della Quaresima è qualcosa di grande. Questo tempo di preghiera, digiuno, di carità, di condivisione ci fa sentire ancora di più la comunione con le nostre comunità di origine e con la Diocesi».

Con il piccolo gruppo di donne nella cittadina rurale di Kokossa, dove Elisabetta ha proposto una serie di incontri, ha invece l’occasione di conoscere più da vicino e direttamente dalle loro storie la realtà femminile in questa terra. «Sono occasioni per le donne di raccontarsi, condividere le fatiche e le piccole gioie di tutti i giorni e provare ad aiutarsi l’un l’altra, senza sentirsi sole».

Casa famiglia dove i ragazzi sono protagonisti

La casa famiglia dove è impegnata Elisabetta Corà e che si trova di fronte al compound della missione padovana ad Adaba, è nata undici anni fa dal desiderio del prefetto padre Angelo Antolini di creare una realtà per accogliere orfani, bambini e ragazzi in situazioni familiari molto difficili e complesse che non permettono loro di crescere in un ambiente sano.
«I giovani sono praticamente il nucleo principale della comunità cristiana di Adaba, a cui si aggiungono due famiglie, assieme a cui condividiamo la preghiera e la celebrazione quotidiana. Al momento sono presenti 12 tra ragazzi e ragazze tra gli 8 e i 17 anni; con loro abita una signora che fa da “mamma” e referente. I ragazzi, oltre ad avere la possibilità di avere una famiglia, una casa, frequentano anche la scuola. Nel tempo libero si impegnano a fare qualche piccolo lavoro nella missione, e inoltre sono per noi un prezioso aiuto nelle attività missionarie nelle comunità circostanti, dove anche loro sono attivi partecipanti e animatori degli incontri, soprattutto con i bambini».

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