Luca Zingaretti firma la sua prima regia: “Rivolgere lo sguardo a chi ci è vicino con compassione e tenerezza”

Luca Zingaretti firma il suo primo film da regista, "La casa degli sguardi", un intenso racconto di rinascita attraverso dolore, lavoro e poesia. Una storia di padri e figli, di cura reciproca e di speranza

Luca Zingaretti firma la sua prima regia: “Rivolgere lo sguardo a chi ci è vicino con compassione e tenerezza”

Nel corso di quarant’anni di carriera, tra cinema, Tv e teatro, Luca Zingaretti ha più volte abitato personaggi di respiro sociale, avamposto di legalità ed eroi del quotidiano. È stato don Pino Puglisi (“Alla luce del sole”, 2005), Giorgio Perlasca (2002), ma anche Paolo Borsellino (2012) e Adriano Olivetti (2013). Ma soprattutto è stato Salvo Montalbano (1999-2021), commissario siciliano dalla penna di Andrea Camilleri, dal granitico senso di giustizia e dal cuore gentile. Nella sua carriera non sono mancate anche maschere sfidanti, come ne “La terra dell’abbastanza” (2018) o nella serie “Il Re” (2022-24). Ora Zingaretti firma la sua prima regia cinematografica, “La casa degli sguardi”, intenso e poetico racconto sociale dall’omonimo romanzo di Daniele Mencarelli: il difficile percorso di crescita di un ventenne, Marcolino, finito nelle secche della disperazione per la perdita della madre; a provare a salvarlo un padre premuroso e un lavoro presso l’Ospedale Bambino Gesù di Roma. In anteprima alla 19a Festa del Cinema di Roma e al 16o Bif&st di Bari, il film è nelle sale dal 10 aprile con Lucky Red.

“La casa degli sguardi” è stato scelto come proposta per il Giubileo 2025, nel volume della Cei “Storie e volti di speranza nel cinema”. Racconta infatti una storia di caduta e di riscatto. Lei stesso ha dichiarato: “Un film sulla vita, dove c’è sempre un motivo per resistere, sulla speranza e sulla capacità dell’uomo di risorgere”. Come legge tutto questo?
Penso che negli ultimi tempi abbiamo un po’ perso di vista l’essere umano. Ci siamo raccontati tante belle cose, ma ci siamo dimenticati del nostro prossimo. Abbiamo smesso di prenderci cura l’uno dell’altro, di essere gentili nel senso più alto del termine. Da questo punto di vista, il film è un invito a rivolgere lo sguardo a chi ci è vicino, con compassione e tenerezza. Immagini quanto mi rende felice tale legame con il Giubileo, che il mio film sia stato indicato come proposta cinematografica di riferimento.

Il film è un viaggio nella vertigine della disperazione di un ventenne, che non riesce a chiedere aiuto e fatica a trovare stimoli. Come ha costruito la traiettoria del personaggio?
Al centro di questa storia di rinascita c’è Marcolino, un ragazzo che sperimenta un mal di vivere che gli risuona dentro in maniera eccessiva. Ha un problema con la sofferenza, soprattutto perché vive in una società che ha demonizzato il dolore, dal quale ci viene detto che bisogna sempre e comunque fuggire.

C’è una verità assoluta: il dolore fa parte della vita, così tanto come la gioia e la felicità. Senza di esso non ci sarebbe felicità, e viceversa.

E allora bisogna accoglierlo in maniera normale. Inoltre, ci si dimentica che il dolore ha una grande qualità: la catarsi. Attraverso lo stare nel dolere si ha il tempo di elaborarlo e di ricominciare mondati dalle cose negative.

“La casa degli sguardi” esce in sala a poche settimane dal francese “Noi e loro” con Vincent Lindon. Entrambi evidenziano una società in crisi di riferimenti per le giovani generazioni, e al contempo riaffermano la centralità del ruolo paterno. È così?
Il ruolo del padre nel mio film è centrale. Voglio fare però una premessa: mentre il ruolo della madre è legato a delle leggi di natura – il bambino ha bisogno del calore e dello sguardo della madre, del suo cibo e tocco – il ruolo del padre è più complesso. Sicuramente è legato a dei momenti storici.

Se penso, infatti, a quando ero piccolo, mia madre mi ripeteva sempre: “Stasera lo dico a tuo padre”. Se oggi mia moglie lo dicesse alle nostre figlie, si prenderebbe una pernacchia. Il suo ruolo non è più percepito così “autoritario”.

E allora, nel film, mi sono inventato questo padre che nella sua semplicità – non dimentichiamoci che viene dalla working class – è come se dicesse al figlio: “Senti, io non ho ben chiaro come mettere mano al tuo disagio, perché sono un uomo semplice e poi perché di te si occupava soprattutto tua madre. Però, devi sapere una cosa: in qualunque momento, in qualunque posto, tu avrai bisogno di me, mi troverai. Io sono qui, per te. Io mi prendo cura di te”. È un uomo che insegna al figlio facendo testimonianza della sua esistenza. Insegna a vivere con l’esempio. Con i miei co-sceneggiatori abbiamo costruito la professione del padre pensandolo tranviere: è una metafora, perché la locomotiva ha una strada segnata; un percorso che è sempre quello, disponibile a chi ha bisogno. Credo che un padre, una madre o un partner, che dice “io per te ci sono”, sia il regalo più grande, più bello, che la vita possa fare.

Altro tema chiave è il lavoro: è quello che apre alla possibilità di riscatto. Quanto è importante offrire opportunità ai giovani?
Il lavoro non è solo quello che ci permette di guadagnare i soldi per vivere – che già solo questo è tantissimo –, è molto di più. Va ricordata la sua capacità salvifica, perché il lavoro radica nella società e identifica come essere umani. Ecco perché è così drammatico quando uno non trova lavoro oppure lo perde, perché si ha la percezione di non avere posto nella società. E l’essere umano è un animale sociale. Ha bisogno di un ruolo. Marcolino inizialmente non vuole andare a lavorare, non vuole accettare il posto all’Ospedale Bambino Gesù, perché ha attacchi di panico; è dal lavoro, però, che alla fine riesce a ripartire, a ricominciare a vivere.

“La casa degli sguardi” è anche un film sulla poesia. Marcolino ha talento nella scrittura. Sente di dover (ri)affermare il valore della poesia? Nel nostro presente così caotico, ci siamo forse dimenticati della bellezza?
La poesia è stata sicuramente marginalizzata nella nostra società. Leggere una poesia necessita di un tempo in cui abbandonarsi a delle suggestioni, come la noia del resto. Paolo Sorrentino ripete sempre che il vero privilegio oggigiorno è annoiarsi, e in questo sono d’accordo. La poesia fa parte di quella famosa bellezza che alla fine salverà il mondo. E io ci credo fermamente.

La nostra vita non può essere fatta solo di cose che esulano da un momento contemplativo. La contemplazione è necessaria come il semplice respirare, altrimenti terminiamo il nostro percorso su questa Terra avendo perso la parte più interessante.

Senza svelare nulla, la scena finale del suo film è densa di poesia: sguardi e parole quasi accennate, tra padre e figlio, che strappano commozione. Un omaggio allo stile neorealista?
Non c’è alcuna volontà di rendere omaggio al neorealismo. Di certo ho voluto rimettere davanti alla macchina da presa la classe sociale che è stata a lungo raccontata dal cinema italiano, soprattutto dal Secondo dopoguerra. Stimo coloro che arrivano a fine mese con grandi sacrifici, ma con grande dignità e gioia, con un forte senso etico, cui non rinuncerebbero. E hanno una grande propensione alla condivisione, molto di più di chi ha maggiori possibilità. Riguardo al finale, ho cercato di evitare formule troppo rassicuranti, da classico lieto fine. Ci troviamo davanti a un’alba, che simboleggia una rinascita, un nuovo inizio, senza però ipotecare il domani, di cui non c’è certezza. Inoltre, mi è piaciuto raccontare come Marcolino osservando una mamma prendersi cura di un bambino abbia avvertito il desiderio di protezione, il bisogno di un abbraccio, e allora sia andato dal padre. Ho composto così l’immagine di questi due, padre e figlio, che si ritrovano in una metropoli ancora addormentata, sulle prime luci dell’alba.

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Fonte: Sir