Lo jus scholae sospeso. Una riflessione sul rischio di sospendere la proposta di legge dello jus scholae
C’è un rapporto diretto tra mancata inclusione e sfruttamento.
Ci sarebbe circa un milione di studenti che frequentano la scuola interessato a una riforma della legge sulla cittadinanza che ormai ha compiuto trent’anni e dimostra di non rispondere più alle trasformazioni della nostra società. Però, lo jus scholae, la proposta che dovrebbe rinnovarla, sembrerebbe prendere la via della sospensione in Parlamento.
Il testo della riforma prevederebbe la possibilità per i minorenni che hanno completato cinque anni di scuola in Italia di poter acquistare la cittadinanza del paese nel quale vivono. Gli effetti della misura sarebbero estremamente circoscritti e – di fondo – riguarderebbe esclusivamente bambini e ragazzi. Eppure, la modifica non trova il favore di tutti. C’è una forte opposizione che induce varie argomentazioni più o meno realistiche, che nascondono una ragione ideologica: si vuole mantenere come principale via della cittadinanza lo jus sanguinis, cioè la discendenza diretta da italiano o italiana. Così si difende strenuamente una legge che era stata impostata per riconoscere la cittadinanza agli italiani emigrati in altri paesi, per sbarrare la strada a chi è nato nel nostro oppure è venuto ad abitarci da bambino.
Lo jus scholae non è il primo tentativo di modifica, ce ne sono stati altri almeno negli ultimi dieci anni dallo jus soli allo jus culturae. Tutti hanno finito per cadere nel dimenticatoio. Però bisognerebbe considerare che in questo modo alcune persone rischiano di rimanere in una posizione ambigua. Non totalmente inserite, non totalmente incluse.
C’è un rapporto diretto tra mancata inclusione e sfruttamento. Ci sono molte persone che si trovano a vivere lungo un margine. Sono inserite nella società. Affrontano il loro percorso di studi, entrano nel mondo lavorativo ma non sono completamente inseriti, possono essere curati dal sistema sanitario. Tuttavia, loro non sono completamente inseriti. Ognuno finisce per abitare uno spazio intermedio e subisce le conseguenze di questo suo stato. In quello spazio intermedio attecchisce lo sfruttamento. Lo sanno i migranti che barattano il loro sogno di futuro per un permesso di soggiorno lavorativo ottenuto per cogliere pomodori e vivere in fatiscenti strutture di lamiera. Lo sanno i giovani lavoratori che fanno finta di non conoscere alcuni dei loro diritti per cercare di mantenere l’occupazione per cui hanno studiato. Lo imparano presto i ragazzi e le ragazze di seconda generazione che sono in Italia, conoscono l’italiano e il dialetto della città dove vivono, hanno stili di vita identici ai loro amici e tifano le loro stesse squadre di calcio, ma a loro è impedito di sentirsi completamente accettati e inseriti.