Liturgia. Uniti a Cristo, nel corpo: l'economia della salvezza secondo l'apostolo Paolo

Per l’apostolo Paolo tutta l’economia della salvezza ha a che fare con il nostro corpo entrato in contatto con quello del Figlio di Dio

Liturgia. Uniti a Cristo, nel corpo: l'economia della salvezza secondo l'apostolo Paolo

Mentre fa della Lettera ai Romani il più grande inno alla fede in Cristo mai scritto, Paolo mostra come il suo senso non vada inteso nell’ordine della conoscenza. La competenza intellettuale, necessaria, ci orienta a realizzare, in maniera impossibile a definirsi per noi creature, l’unità del nostro corpo, per mezzo del battesimo, con il corpo pasquale di Gesù Cristo. Ecco la teologia che abita il capitolo sesto dell’epistola. «Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione» (Rm 6,5). L’unità con Cristo non è morale, spirituale, d’intenti. Include tali dimensioni, ma si realizza attraverso il nesso con la sua morte e la sua risurrezione. Il tesoro sommo della Chiesa, il vertice di ogni realtà che riguarda il cristianesimo, è infatti l’eucaristia: la viva presenza del corpo pasquale del Signore. Paolo insiste sul fatto che tutta l’economia della salvezza abbia a che fare con il nostro corpo entrato in contatto con quello del Figlio di Dio. La condizione fisica è ambigua. Proprio in essa abita il peccato e solo chi è morto non può più peccare, è libero. Diviene pertanto necessario che il vecchio uomo, il primo Adamo, sia crocifisso e muoia. Anche noi cristiani potremmo cadere nel tranello di pensare il corpo come semplice unità biologica: quel meccanismo meraviglioso, uscito dalle mani del Creatore, che, in certe condizioni, definiamo vivo, in altre morto. L’apostolo ne ha invece una visione infinitamente più alta. Sta concentrando tutto il mistero pasquale – cioè il vertice della manifestazione di Dio a noi – nella relazione tra il corpo di Gesù Cristo e il nostro. La risurrezione stessa è definita sempre come manifestazione. Emblematica l’immagine, così amata dall’arte religiosa, di Tommaso che pone la mano nella ferita del costato del Signore. Le apparizioni del Risorto non sono dichiarazioni o spiegazioni, ma manifestazioni del corpo: mangia, cucina, siede, parla, soffia lo Spirito, si fa toccare le piaghe. Ammonisce: «Non sono un fantasma». Si potrebbe anche ipotizzare, per assurdo, visto che noi uomini siamo limitati nell’avvicinarci a Dio, che Gesù si sia reso strumentalmente tangibile, eppure questo sarebbe pervertire, rovesciare il senso della rivelazione. Al principio dell’universo, l’opera divina che lo trae dal nulla, come scriveva Ireneo di Lione, è il Padre che, con una mano, lo Spirito Santo, e l’altra, il Verbo, plasma la polvere di Adamo e, soffiando su di lui, lo rende uomo vivente. Con la plasmazione del nostro corpo, nell’atto della creazione, è come se il vuoto si svuotasse e le membra di Adamo ed Eva manifestassero l’amore trinitario. È per questo che tutta la Pasqua è giocata nei termini del corpo, certo “pneumatico”, libero dalle caducità entrate misteriosamente nel mondo a causa della ribellione del peccato.

Quando, la domenica, la Chiesa canta «et expecto resurrectionem mortuorum», vede nella risurrezione della nostra carne il senso stesso dell’amore di Dio, del perché Dio è uscito quasi da sé. Proclamare ciò significa strappare il corpo umano dalle sue derive biologistiche, gnostiche, etiche, relazionali, psicologiche, affettive – da tanto discorrere, pur legittimo. Strappare, non nel senso del disprezzo, ma per sottolineare che noi, risorti come il Signore, saremo palpito, fremito della vita divina, scintille d’oro puro scaturite dalla luce gentile del cero pasquale, che è Cristo stesso. Chi, se non il cristianesimo, se non la Chiesa, custodisce, nel forziere più magnificente mai pensato dall’arte di un orefice sublime, la verità dell’uomo? Basta pensare, senza toni lugubri e funerei, a tutti i corpi che si sono consumati nei secoli, a noi stessi dispersi, cioè giunti al massimo effetto del peccato: la disgregazione (“diaballo” – il diavolo disintegra perfino l’unum delle scintille d’oro che siamo). Un’umanità consumata nel tempo, vittima dell’effimero, non può che guardare allo squillo di tromba della voce potente dell’Alfa e dell’Omega, cantata da Giovanni nell’Apocalisse, che chiamerà i nostri nomi, uno a uno, promettendo che vivremo di lui. Di che cos’altro ha bisogno l’uomo, se non di questa pace profondis

don Gianandrea Di Donna
Direttore Ufficio Diocesano per la Liturgia

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