Le parole della Resurrezione. La Pasqua dei grandi scrittori non è solo celebrazione, ma riscatto dopo il passaggio nel buio e nel dolore
Insieme a Dante e a Shakespeare, Goethe rappresenta il culmine di una ricerca svincolata da remore e prevenzioni ideologiche.
“Voi già cantate, cori consolatori, il canto
Che suonò nella notte del Sepolcro, certezza
Di nuova alleanza, dal labbro degli angeli?”
Faust sta per bere il veleno, per sfuggire alla noia e all’irrequietezza di una vita che non soddisfa il suo desiderio di conoscenza. Ma le campane della prima ora del giorno di Pasqua e i cori degli angeli risvegliano i ricordi della sua giovinezza e gli donano di nuovo il desiderio di vivere: “levatevi ancora, dolci inni celesti!/ una lacrima: e la terra/ torna a riavermi con sé!”. La fascinazione della morte lascia il posto a quella dell’accordo tra cielo e terra, maschile e femminile, e non è un caso che la fine del secondo Faust di Goethe veda il trionfo dell’amore sublimato nella Figura della “Vergine, Madre, Regina”, che vince su Mefistofele strappandogli l’anima del coltissimo uomo di scienza che avrebbe voluto fermare il momento della bellezza assoluta. Come se la bellezza fosse una dimensione a sé, svincolata dalla pazienza e dall’amore. E dal dolore. Dovremmo rileggere tutti, in questo periodo di celebrazione della Pasqua forzosamente domestica, il capolavoro di Goethe, perché narra la vittoria dell’amore su una scienza e una magia fini a se stesse e nello stesso tempo, in un’epoca insospettabile, – siamo tra la seconda metà del Settecento e il primo trentennio del secolo successivo -, è un tributo commosso al femminile nella storia dell’uomo e nella fede.
Insieme a Dante e a Shakespeare, Goethe rappresenta il culmine di una ricerca svincolata da remore e prevenzioni ideologiche, e per questo ancora più importante agli occhi di un credente, perché non può fare a meno di riconoscere l’indissolubile legame tra l’uomo e il divino. E in tutti e tre i geni l’amore è un veicolo di questa comunione. Faust si salva dal suicidio grazie ai segni della Pasqua, che è resurrezione e anche passaggio verso l’antica terra madre, attraverso un altro passaggio, quello notturno dell’angelo del Signore, in un continuo riconcorrersi di vita e di morte, di amore e di allontanamento. E Resurrezione è un termine che torna nella letteratura: basti pensare al titolo dell’ultimo, non a caso, romanzo di Lev Tolstoj, che stava tentando di liberarsi dal rimorso di essere ricco e ozioso, tanto da potersi permettere di fare lo scrittore in una società in cui la maggioranza della popolazione versava in condizioni misere.
E anche in questo suo capolavoro si vede il genio di un autore che narra la redenzione di un nobile ufficiale, ma senza lieto fine. Nechljudov infatti riscatta la seduzione e la conseguente rovina di una donna che per campare si deve prostituire, seguendola in tutto il suo calvario: ma, quando tutti ci attenderemmo il matrimonio riparatore, la giovane rifiuta. E allora dove sta la resurrezione del titolo? Nel fatto che il protagonista decide, grazie a questo apparentemente incomprensibile no, di cambiare radicalmente vita e di percorrere d’ora in poi la strada degli insegnamenti di Cristo. È la resurrezione del profondo, favorita dalla constatazione del dolore degli ultimi, che in qualche modo diventano maestri.
E, sempre in tema di conversione interiore, la Pasqua viene rivissuta attraverso il passaggio nel venerdì santo da uno dei più grandi poeti del Novecento, Clemente Rebora. Intellettuale colto, sconvolto dalla sua esperienza nella prima guerra mondiale, ma anche nauseato da una vita apparentemente libera, abbandona sogni di fama, amori, salotti, e si fa monaco. Prima della Resurrezione, scriverà in una delle sue ultime poesie, vi è stata una sofferenza inaudita e indicibile, sulla quale spesso sorvoliamo. Eppure quel supplizio è stato originato da una scelta abissale che può essere resa solo dall’immagine di una carne macerata da un torchio inesorabile:
Solo calcai il torchio:
con me non era nessuno:
calcarono su me tutti:
inebriato quasi spreco di sangue
in una rossa follia.
La letteratura fa anche di questi “miracoli”: far capire cosa significhi veramente giacere nel buio del dolore, prima dell’Alba.