La sfida dello sviluppo sostenibile. L’impresa della sostenibilità

Il nuovo alfabeto delle imprese che si pensano per il bene comune del territorio in cui operano e riflettono su un’economia non solo circolare, ma anche rigenerativa

La sfida dello sviluppo sostenibile. L’impresa della sostenibilità

Partiamo dalle prime parole che lo scrittore Dario Ferrari fa dire a Marcello, il protagonista de La ricreazione è finita: «Ci sono decisioni che segnano la piega che prenderà tutta una vita, e io finora quelle decisioni le ho sempre prese a caso […] e non credo di aver affrontato nessuno snodo fondamentale della mia esistenza con una pur remota forma di ponderatezza e in vista di un obiettivo a lungo (o anche a medio) termine». Adesso, spostiamoci dalla finzione del romanzo alla realtà. Quando prendiamo le decisioni che segnano la piega che prenderanno imprese e lavoro, nessuna persona può permettersi né la leggerezza né l’avventatezza di Marcello, perché queste scelte incidono sulle traiettorie dello sviluppo sostenibile, sulla capacità della società odierna di «assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri». Come comunità, abbiamo il compito di elaborare con ponderatezza un’idea condivisa di futuro. A me piace pensare, che il risultato di questo sforzo collettivo venga descritto in un libro dal titolo L’impresa della sostenibilità, e vorrei che la frase di apertura suonasse così: «Ci sono parole che segnano la piega che prenderà il nostro futuro. Queste parole sono composte con un nuovo alfabeto, che è quello contenuto nei 17 obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu. Dobbiamo usare il giusto equilibrio per definire la nuova grammatica e la nuova sintassi, necessarie per elaborare un discorso all’altezza delle sfide della modernità».

Eravamo abituati a pensare che i tre pilastri che guidano le imprese fossero efficacia, efficienza e redditività, ma negli ultimi anni è entrato nel gergo comune una nuova parola: impatto. Vuol dire che la buona gestione può dirsi tale solo a condizione che abbia un impatto positivo sulle comunità e sui territori in cui opera e, più in generale, che contribuisca in modo concreto alla salvaguardia della vita e delle risorse del pianeta. Ci sarà chi pensa: «Ecco, ci siamo! È il solito discorso astratto del professore di turno». Credetemi, non è così. Oggi, i nuovi prodotti vengono pensati per essere facilmente smontati, riparati e rimontati così da poter avere una seconda o terza vita e, a fine vita, per andare allo smaltimento in modo corretto. Oggi, le imprese adottano modelli di business sostenibili e ridisegnano le reti di fornitura prestando attenzione alla tracciabilità di ogni passaggio al fine di ridurre l’impronta ecologica. Questi (e altri) cambiamenti sono riassunti nel concetto di Economia Circolare e un numero crescente di imprese si sta avvicinando a essa. Ma ci sono anche punte più avanzate, che dichiarano di voler arrivare all’Economia Rigenerativa, che oltre a fare il possibile per riparare i danni ereditati dal passato si propone di rivitalizzare persone e ambienti e di ricostruire le condizioni che permettono uno sviluppo equilibrato in senso sociale, ambientale ed economico. «Ecco, ci risiamo! Questi professori ci raccontano un mondo che non esiste». Credetemi, non è così. Lo dimostra il triestino Andrea Illy, che insieme a un piccolo gruppo di imprenditori familiari ha fondato la Regenerative Society Foundation. «Con questi colleghi […] che rappresentano l’avanguardia del modello della stakeholder company in Europa e nel nostro Paese – ha detto Illy – condividiamo etica, valori e soprattutto la missione di accelerare la transizione da un modello socioeconomico estrattivo e lineare, a uno rigenerativo e circolare». Altre due parole segnano la giusta piega che stanno prendendo impresa e lavoro: benefit e purpose. La prima identifica il superamento del tradizionale confine tra profit e non profit. Un numero crescente di imprese, in modo del tutto volontario, dichiara di voler operare anche per «generare un beneficio comune» esteso alle comunità e i territori, prende impegni concreti in questa direzione e rende conto degli obiettivi raggiunti. Alcune, volontariamente, diventano anche Società Benefit: l’Italia, sappiatelo, è il secondo Paese al mondo ad aver introdotto questa forma giuridica per supportare chi pensa per davvero che imprese e lavoro sono parte integrante del bene comune. La seconda parola, purpose, è ancora più incisiva e ci dice che, in un crescente numero di imprese, a guidare le decisioni che “segnano la piega” non sono il “cosa” e il “come”, ma il “perchè”. Ne L’impresa della sostenibilità, lo scopo e la ragion d’essere sono il punto di riferimento. È rassicurante.

Paolo Gubitta
Professore Ordinario di Organizzazione Aziendale e Coordinatore Laurea Magistrale in Management for Sustainable Firms, Università di Padova

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