La pace degli umili, la guerra dei potenti
Un saggio sulle ideologie e un intramontabile classico della letteratura ci aiutano a comprendere alcune vicende moderne. “Sul nazionalismo” è una sorta di manifesto ideologico, scritto nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale, in cui Orwell prende le distanze da quelle utopie che sembravano aver cambiato il mondo e che in realtà si erano rivelate peggiori dei mali combattuti, instaurando regimi assolutistici e sanguinari. Ma la critica radicale alla propria società veniva però da lontano, dagli anni sessanta dell’Ottocento, quando uscì a puntate, su una rivista russa, uno dei capolavori di Lev Tolstoj, “Guerra e pace”.
Ce n’è per tutti in questo saggio di George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair, “Sul nazionalismo”, originariamente “Notes on nationalism”, già apparso da noi con titoli diversi. La stessa vicenda umana dello scrittore-cult di “La fattoria degli animali” e di “1984” ci aiuta a capire perché: nato in India, di famiglia non provvista di rilevanti beni di fortuna, ha fatto i più svariati e umili mestieri, condividendo la sorte degli emarginati e narrandola in alcuni suoi libri, come “Senza un soldo a Parigi a Londra”, proprio come aveva fatto Jack London con “Il popolo dell’abisso”; ha combattuto nella guerra di Spagna contro i franchisti e
lentamente ha preso le distanze da quelle utopie che sembravano aver cambiato il mondo e che in realtà si erano rivelate peggiori dei mali combattuti, instaurando regimi assolutistici e sanguinari.
E “Sul nazionalismo” oggi riedito da Lindau, (55 pagine, 9 euro) è una sorta di manifesto ideologico, scritto nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale, che con il pretesto di parlare di nazionalismi permette ad Orwell di togliersi diversi sassolini, talvolta macigni, dalle scarpe, mettendola talvolta un po’ troppo sul generico e collocando nell’ambito nazionalista persone e correnti che poco hanno avuto a che farci, come nel caso di Lafcadio Hearn, che non fece del Giappone, dove scelse di andare a vivere (era nato in Grecia da famiglia irlandese), un mito nazionalistico, ma una nuova patria, entrando semmai, e chissà se gli sarebbe piaciuta, nell’altra classificazione, di cui qui Orwell parla a modo suo: il patriottismo. Altre incomprensioni emergono, come quella per Chesterton, cui la patente di nazionalista rovesciato -in senso anti-britannico- sta piuttosto stretta (come anche quella di creatore di un unico personaggio, quello di Padre Brown) e Ezra Pound: è vero che quest’ultimo ha simpatizzato con il regime fascista, e per questo è stato condannato in patria, ma che faccia parte dei nazionalisti che non riescano “a scrivere un libro che meriti di essere letto anche a distanza di qualche anno” è un po’ semplicistico, visto che Pound prima della sua sciagurata idolatria di regime scrisse opere poetiche degne di rimanere, e oltretutto ha reso, con i suoi consigli editoriali, la “Terra desolata di Eliot” quella che noi tutti ammiriamo oggi. Ma al di là di questi incidenti di percorso Orwell diviene talvolta profetico come quando afferma che nel delirio che lui chiama nazionalista – e che sarebbe oggi meglio chiamare ideologico -, “non c’è crimine che non possa essere giustificato quando a compierlo è la ‘nostra’ parte”.
Il socialista libertario che aveva creduto in una sinistra capace di creare un coraggioso mondo nuovo, come molti altri scrittori del tempo, aveva dovuto abbandonare quel sogno unitario, elaborare il lutto e ricominciare da quel socialismo da cui quei sogni avevano spiccato il volo.
La critica radicale alla propria società veniva però da lontano, dagli anni sessanta dell’Ottocento, quando uscì a puntate, su una rivista russa, uno dei capolavori di Lev Tolstoj, “Guerra e pace”.
Una lunghissima storia, fatta di tante altre storie, familiari e belliche, mai così attuale in questo tempo che vede la Russia e i paesi dell’occidente di nuovo guerra, coinvolti in una ripetizione che avrebbe fatto inorgoglire il Nietzsche dell’eterno ritorno e l’Ecclesiaste della fatalità di “un tempo per la guerra e un tempo per la pace”. In “Guerra e pace” non c’è solo memoria delle guerre napoleoniche, soprattutto della disastrosa spedizione in Russia, ma la percezione, che sembra farsi largo assieme alla – paziente, vista la lunghezza del romanzo – attenzione del lettore, che questo apparentemente insensato ritorno della lotta e poi della tregua non sia davvero così privo di significato come sembra; in alcuni personaggi inizia quella lotta interiore che porterà due di loro, Pierre Bezuchov e il principe Andrej Bolkonskij ad una maturazione e ad una saggezza oltre le raffinatezze e gli intrighi, compresi quelli sentimentali, delle classi agiate. L’inquieto Pierre conoscerà il suo angelo rivelatore nella umile figura di Platon Karataev, un contadino-soldato, anticipazione di quello che qualche anno dopo sarà l’altro umile messaggero della vera vita a contatto con la natura, il contadino che alla fine di “Anna Karenina” convincerà Levin, nauseato dalla brillante e falsa vita di corte, a tornare alla terra.
Una convinzione che Tolstoj praticò personalmente, fino al drammatico abbandono del benessere per andare a morire in una stazione ferroviaria.
Libro oceanico, dunque, ma nello stesso tempo prezioso diario di storie apparentemente inarrivabili, come quella di Napoleone, e che rivelano invece le inquietudini di uomini che alla vista delle carneficine scatenate dalla loro “gloria” riflettono sul vero senso della vita e della storia, quella fatta da loro e che sembra averlo perso, quel senso.
Alla fine, come nel rasoio di Occam, ecco il bagliore della verità: la semplicità.
Un bagliore fatto di umiltà, di attenzione all’altro, e come abbiamo visto di ritorno alla grande madre, al dono di Dio senza il quale, ricordiamocelo una volta per tutte, in tempi in cui armi micidiali potrebbero scatenare l’inferno, noi non potremmo esserci. Senza il dubbio amletico.