La lezione di Vilnius: marginalità ucraina, anti-Cina e prove di Nato globale
Il vertice Nato di Vilnius non ha riservato sorprese. In cambio di contropartite, è caduto il veto di Erdogan all’ingresso svedese.
Il vertice Nato di Vilnius non ha riservato sorprese. In cambio di contropartite, è caduto il veto di Erdogan all’ingresso svedese. In attesa della ratifica parlamentare, Ankara potrà verificare l’impegno Usa a ricambiare con lo sblocco degli F16 e la revoca delle sanzioni militari. La politica delle due staffe del “fu dittatore” ha mostrato a Washington e Mosca che contrattando si può ragionare su tutto. Lasciando a margine l’ipotesi dell’integrazione Ue (il regime non soddisfa i parametri europei di libertà e diritti civili, anche se le capriole non stupiscono più), Erdogan ha ancora molto da lucrare da ambo le parti, guardando alla sua agenda: hub energetico, Egeo, Libia, Medioriente, area transcaucasica.
Scontata anche la mancanza di una pur vaga programmazione del futuro ingresso ucraino. Non sono bastate le attese di Zelensky, le pressioni di Kuleba e la pur mesta lusinga di Reznikov, ministro della difesa che ha definito l’Ucraina un poligono utile a testare le armi dell’Alleanza. La delusione non è compensata dalla promessa di Biden circa un “rapporto militare speciale” come quello con Israele (oltre a Giappone, Colombia, Australia, Tailandia, ecc.). Tradotto: finanziamenti della spesa militare che il beneficiario usa in esclusiva per commesse all’industria bellica Usa. Né saranno una svolta le partite di bombe a grappolo, anche perché non solo sono già usate da entrambi i nemici, ma affliggono il Donbass dal 2014. Sì, perché, a dispetto delle narrazioni manichee, Ucraina, Russia e Usa sono tra i 36 Paesi non firmatari della Convenzione Onu di Dublino che dal 2008 ne vieta uso, produzione, trasferimento e stoccaggio e ne classifica l’impiego come crimine di guerra.
A norma del Trattato atlantico, restano alla porta i candidati con guerre in corso. Sono lontani i giorni in cui Stoltenberg prometteva un ingresso accelerato. Oggi il suo forzato ottimismo suona come un “riparliamone quando avrete vinto”. Già, perché a questo conduce il sillogismo per cui se nella Nato si entra senza guerre e se per Kiev la pace equivale alla riconquista degli oblast russofoni (Crimea inclusa), l’unica possibilità resta la vittoria militare. A parte la realizzabilità (il Nyt da fonti Cia fa sapere che nella controffensiva Kiev ha perso oltre il 20% di armi e mezzi e 80mila uomini), a tale condizione, la Russia avrà interesse a trasformare la guerra in un conflitto a bassa intensità di lunga durata, ostativo all’ingresso Nato. Che poi, se la memoria degli antefatti conta, è stata la causa prossima dell’invasione, seguita alle infiammate proteste per le interlocuzioni tra Stoltenberg, Zelensky e Blinken di fine 2021.
L’assenza anche di un’ipotesi calendariale indica anche che la versione per cui l’aggressione all’Ucraina sarebbe l’avvio dell’espansionismo russo da Varsavia a Lisbona non è mai stata creduta dagli estensori della prima ora. Anche perché (con il conforto teorico del “dilemma della sicurezza”) la vicenda ucraina ricorda quella georgiana, suggerendo ponderazione nel definire il rapporto causa-effetto tra aggressività russa ed espansione atlantica: nel 2008 Bush insisté per allargare la Nato a Tbilisi e Kiev e non bastarono le frenate di Parigi e Berlino a rassicurare Putin, che quattro mesi dopo attaccò la Georgia occupando le aree russofile.
Il diniego di Vilnius, in verità, era nell’aria. Da quando si registra il disappunto di Washington. Mentre il Dipartimento di Stato addita Kiev se si parla di attentati a Dugina e Tatarsky, di NordStream e Ponte di Crimea, la Cia fa filtrare sulla stampa l’accordo segreto di novembre 2021 con il Cremlino sulle regole di ingaggio della guerra all’orizzonte: no ad armi nucleari, no a rovesciamenti di regime in Ucraina e a Mosca, no a sconfinamenti del conflitto. Così oggi le azioni sul suolo russo sono viste come insubordinazioni di un partner non affidabile. Inoltre l’estremismo nazionalistico che infiltra l’esercito e assedia il governo ucraini suggerisce che, anche se la guerra cessasse ora, mancherebbero le garanzie di controllo: con Kiev nella Nato, la ripresa dello scontro trascinerebbe l’Alleanza in guerra (art. 5). In un frangente in cui gli Usa, paghi del divorzio tra Europa e Russia (e Oriente, di cui questa è porta) non possono permettersi di distrarsi dall’antagonista reale: la Cina.
Non a caso il documento conclusivo di Vilnius ha dedicato a Pechino uno spazio inusitato, dipingendola come nemico totale mediante il seguente profilo: sfida alla sicurezza occidentale per via della sua proiezione globale; lanciata a controllare settori tecnologici chiave e infrastrutture critiche; in cerca di dipendenze strategiche da creare per aumentare la sua influenza; arbitraria in politica estera e irrispettosa dell’ordine mondiale basato su regole. In breve, si tratteggia un alter ego speculare e perciò incompatibile con l’unipolarismo Usa. Il documento la accusa poi di sostenere lo sforzo bellico russo: mancando prove(tte) su forniture militari a Mosca, ciò allude al volume degli scambi commerciali e il no alle sanzioni. Eppure l’India (primo importatore della Russia), che del pari non sanziona la Russia e anzi ne è divenuta primo importatore, un mese fa è stata definita da Biden partner stretto della Casa Bianca. Segno che Washington spinge verso i blocchi contrapposti, che impongono la scelta della parte con cui stare, una volta distrutto The Myth of Neutrality – come titola un recente editoriale su Foreign Affairs di Richard Fontaine, direttore del Center for a New American Security, già membro del Dipartimento di Stato e del Consiglio nazionale di Sicurezza. Quella neutralità che tuttavia salva la pace, permettendo mediazioni credibili e vie d’uscita invece impossibili nel campo delle fedeltà binarie e con la politica aut-aut.
Segno, inoltre, dell’ambizioso progetto di una Nato globale, suggerito dalla presenza a Vilnius di Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Sud Corea, membri della “Nato” del Pacifico di cui si parla da un po’: in vista dell’egemonia sul cd. “Oceano-Mondo”, ora meno lontano grazie a un Artico a portata mediante Svezia e Finlandia. Il tutto mentre gli Usa, stante l’insostenibile iperestensione, cambiano registro assegnando ai gregari ruoli di presidio sempre più onerosi, facendoli gareggiare nell’omologarsi alla regia del complesso militare-industriale di Washington. Che così scommette sulla propria capacità di intestarsi il governo dell’ordine mondiale, contrastando le direttrici multipolari altrui. Scommessa in cui anche l’Ucraina ha avuto la sua parte, ma più periferica di quanto credesse.
Giuseppe Casale*
*Pontificia università lateranense