La democrazia è molto più di un’elezione. Oltre il voto del 25 settembre
Se non basta svolgere le elezioni per avere una vera democrazia, è altrettanto vero, però, che non ci può essere una vera democrazia senza elezioni.
Intorno alle elezioni si confrontano due atteggiamenti palesemente contrapposti. Entrambi contengono elementi di verità ma li forzano e li distorcono fino al punto di determinare esiti pericolosi per un Paese realmente democratico. Da un lato c’è chi esprime un giudizio irrimediabilmente negativo sull’utilità della consultazione popolare e sul ruolo dell’insieme dei partiti, senza fare distinzioni. E’ la via che porta dritta all’astensionismo, diventato sempre più il “convitato di pietra” di ogni tornata elettorale. Dall’altro c’è chi attribuisce alle elezioni un significato assoluto, salvifico, come se i risultati delle urne fossero un oracolo capace di esaurire in sé le dinamiche della democrazia e di legittimare automaticamente qualsiasi opzione. Sappiamo bene, invece, che non è così e che la storia del XX secolo, ma anche quella più recente, mostra esempi di regimi illiberali o propriamente totalitari i cui leader sono passati trionfalmente attraverso la consacrazione del voto popolare. La democrazia è molto più di un’elezione. A parte ogni considerazione sull’inquinamento dei meccanismi di formazione del consenso che nell’era digitale sono diventati potentissimi e dovrebbero indurre a molta prudenza, la democrazia è soprattutto un delicato equilibrio di poteri e di valori, di diritti e di doveri, di limiti e di garanzie. Chi vince le elezioni (e sull’uso del verbo “vincere” ci sarebbe da ragionare) ha pienamente il diritto di governare ma non diventa il padrone della Repubblica. Il rischio di quella che Tocqueville definiva “dittatura della maggioranza” è sempre dietro l’angolo.
Se non basta svolgere le elezioni per avere una vera democrazia, è altrettanto vero, però, che non ci può essere una vera democrazia senza elezioni. Certo, a riesaminare il modo brusco e insensato in cui è stata interrotta la legislatura e a ripercorrere l’andamento di una campagna elettorale tanto confusa e scomposta nei modi quanto illusoria e demagogica nei contenuti, la tentazione di non partecipare al voto diventa forte. Ma così facendo ci si chiama fuori da quella democrazia in cui a parole tutti (o quasi) dicono di riconoscersi. E si firma una delega in bianco che – a pensarci bene – non è poi così diversa da quella di coloro che si affidano ciecamente a un leader sperando ogni volta che sia quello giusto.
Se tra i partiti ha latitato il senso di responsabilità, suppliscano i cittadini. C’è bisogno di un voto che sia il frutto di un attento discernimento di ciò che si ritiene più funzionale al bene comune. Sì, perché questa sarebbe una bella e pacifica rivoluzione: votare non per il proprio tornaconto personale o di gruppo, ma pensando all’interesse generale, che è allo stesso tempo nazionale, europeo e internazionale, e non può che ripartire da chi si trova più indietro. E’ questo l’unico atteggiamento veramente realistico. Dalla crisi si esce soltanto insieme. Non ci sono scorciatoie se non a vantaggio dei più forti.