La cappella diventa un’aula. Su una brutta pagina di storia, quella del Simonino, la Chiesa di Trento ha fatto coraggiosamente luce

Alla fine del 2018 il Fai ha ricevuto in eredità da Marina Larcher Fogazzaro il palazzo e la cappella, che dal 1965 non è più un luogo di culto

La cappella diventa un’aula. Su una brutta pagina di storia, quella del Simonino, la Chiesa di Trento ha fatto coraggiosamente luce

Giugno 1961. Museo diocesano di Trento. “Buongiorno! È possibile parlare con il direttore, mons. Rogger?”. È una donna acuta, battagliera e intraprendente Gemma. È partita da Bologna per andare a chiedere al celebre storico della Chiesa trentina di condurre delle indagini. “Monsignore, le chiedo di indagare sulla verità storica di un vostro santo locale, san Simonino, che viene venerato da circa cinque secoli”.

La richiesta di Gemma Volli (1900-1971) non era campata in aria. Insegnante e storica di origine triestina, una delle più importanti personalità della comunità ebraica di Bologna – dove si era trasferita all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale – Gemma aveva deciso di diventare testimone del suo popolo, il popolo ebraico, raccontando storia e storie di ebrei. Un anno prima di recarsi a Trento, aveva pubblicato il libro “Il caso Mortara”, in cui raccontava le vicende di Edgardo Mortara, arrivate lo scorso anno sul grande schermo grazie al film “Rapito” di Marco Bellocchio.

Gemma Volli aveva condotto anche una serie di studi sul culto del Simonino. Ed era a Trento per presentare il risultato delle sue ricerche a mons. Rogger, che era sì sacerdote, ma che era anche uno storico onesto. Mons. Rogger accoglie la richiesta di Gemma Volli e chiede al domenicano Willehad Paul Eckert.

Giovedì santo, 23 marzo 1475. Il sole volge al tramonto quando a Trento scompare un bambino. Si chiama Simone, è nato nel novembre 1472, figlio di Maria e di Andrea Unverdorben, il conciapelli che lavorava nella contrada del Fossato. Lo cercano per tre giorni. La domenica di Pasqua la tragica scoperta del corpo del piccolo in una roggia (un fossato che costeggia gli edifici e che porta nell’Adige), nei pressi della casa di Samuele da Norimberga, uno dei maggiori esponenti della piccola comunità ebraica locale. Le chiacchiere rafforzate dall’eco della predicazione contro l’usura compiuta qualche settimana prima dal frate osservante Berardino da Feltre, portano a indicare come colpevoli del rapimento e dell’uccisione del bimbo erano stati gli ebrei. Giovanni de Salis da Brescia, podestà di Trento, ne fa arrestare diciotto. Nel frattempo, il corpo del piccolo viene posto su un altare della chiesa di S. Pietro e si inizia a diffondere la fama di miracoli che sarebbero avvenuti grazie al contatto con esso. Non solo. La credenza di tali eventi prodigiosi rafforza l’opinione comune secondo la quale il piccolo era stato ucciso da nemici della fede cristiana.

Johannes Hinderbach (1418-1486), vescovo di Trento dal 1465 che esercitava anche il potere temporale e condivideva in pieno i pregiudizi antiebraici, manda a processo gli arrestati nominando anche i giudici che avrebbero dovuto emettere una sentenza – che di fatto era già scritta. Gli accusati dapprima si dichiarano innocenti, ma dopo essere stati torturati in modi considerati estremi anche all’epoca, finiscono con l’acconsentire con la versione dei fatti che i giudici proponevano loro, ossia che avevano commesso un “omicidio rituale”, uccidendo il piccolo per consumarne il sangue nella festa di Pasqua. A nulla servì l’intervento, il 21 aprile, del duca d’Austria e conte del Tirolo Sigismondo d’Asburgo, che bloccò il processo. Gli accusati finiscono sul rogo mentre mons. Hinderbach spedisce a Papa Sisto IV una relazione chiedendo la canonizzazione del bambino. Il Papa manda a Trento il domenicano Battista dei Giudici (1428-1484) vescovo di Ventimiglia, come commissario apostolico, incaricato di valutare la situazione. Questo fin dal suo arrivo ritiene le accuse contro gli ebrei inverosimili e sostiene che non solo le confessioni erano state estorte con la tortura, ma anche i verbali erano stati falsificati. La sconfessione del culto implicava una critica nel mondo in cui era stato condotto il processo e così, per difendere se stesso, Hinderbach avvia un’azione per screditare il commissario apostolico. Nonostante il Papa avesse vietato esplicitamente di dare a Simone da Trento (chiamato il Simonino) il titolo di “beato” e di dichiarare che era stato ucciso dagli ebrei, il culto si diffonde velocemente e l’immagine del bambino in veste di martire, complice l’efficienza di una nuova tecnologia da poco inventata, la stampa, si diffonde tra la gente contribuendo a far crescere la giudeofobia moderna.

Al Simonino vengono così dedicate cappelle, affreschi, strade e ogni dieci anni a Trento si tiene una processione in suo onore. Fino a quando Gemma Volli non bussa alla porta di mons. Rogger e questi decide di indagare.

La ricerca coincide con l’apertura del Concilio Vaticano II e la rivoluzione di Giovanni XXIII, che abolisce l’ingiurioso “perfidi giudei” dalla liturgia del Venerdì santo. Le ricerche condotte confermano che quella costruita attorno alla drammatica morte del Simonino era una vera e propria “fake news”. Il 4 maggio 1965 la Congregazione vaticana dei riti rimuove il culto e a ottobre, negli stessi giorni in cui a Roma Paolo VI chiudeva il Concilio, il vescovo di Trento, mons. Alessandro Maria Gottardi, con coraggio dichiara definitivamente abolito il culto del piccolo Simone. La verità storica aveva prevalso dopo quasi cinque secoli e gli ebrei erano definitivamente scagionati.

Su questa brutta pagina di storia, la Chiesa di Trento ha fatto coraggiosamente luce, promuovendo nel 2019 attraverso il museo diocesano una mostra (dal titolo “L’invenzione del colpevole”)

Trento, seconda metà del Seicento. All’interno di Palazzo Bortolazzi Larcher Fogazzaro, nel centro storico di Trento, là, dove nel Quattrocento sorgeva la casa natale del Simonino, la famiglia Bortolazzi fa costruire una cappella, con all’interno un altare in marmi policromi e affreschi della metà del Settecento. Alla cappella si accede dalla strada, attraverso un portale sovrastato da una statua del bimbo affiancata da iscrizioni e – successivamente – da una nicchia con una campana. Più in alto si può ammirare un affresco, preesistente agli interventi del Settecento, raffigurante il Simonino “in gloria”.

Alla fine del 2018 il Fai ha ricevuto in eredità da Marina Larcher Fogazzaro il palazzo e la cappella, che dal 1965 non è più un luogo di culto.

Oggi quella cappella diventa un’aula. Si tratta di un luogo di grande valore culturale, non solo per l’architettura e le decorazioni, ma soprattutto perché è la testimonianza di una storia che rappresenta una pagina buia del nostro passato, e che proprio per questo, a maggior ragione, deve essere conservata e raccontata, per tramandare la memoria di ciò che è stato e non deve più ripetersi. Proprio per questa ragione il Fai ha deciso di riaprire questo luogo con una nuova funzione, quella di educare i cittadini di oggi e soprattutto di domani, vale a dire i ragazzi delle scuole, a cui è primariamente destinato. In quest’ottica nasce l’”Aula”: un’aula scolastica, ma fuori dalla scuola, uno spazio aperto e disponibile agli insegnanti delle scuole del Trentino (e non solo), in cui – a partire dall’ascolto del racconto di questa tragica vicenda di antisemitismo storico – trovare l’occasione di far riflettere, confrontare e discutere i ragazzi su temi ancora e, specialmente in questo nostro presente, di assoluta attualità: dall’intolleranza religiosa, che causa ancora oggi guerre e conflitti, al potere micidiale e distruttivo che hanno pregiudizi e falsità nel seminare odio, che si esprime non solo sul campo di battaglia, ma anche sul web, nella violenza contro l’altro, solo perché sconosciuto o diverso.

L’inaugurazione ufficiale, avvenuta lo scorso 12 luglio, è raccontata con una storia nel profilo Ig del Fai giovani Trento.

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Fonte: Sir