L’Adamello: il ghiacciaio che si sgretola e muore

È un ambiente fragile, ma tutti dovrebbero vederlo per prendere coscienza di quanto sta accadendo al nostro mondo. La situazione è cambiata e nessuno può negarlo

L’Adamello: il ghiacciaio che si sgretola e muore

“Il canto del ghiaccio” è un titolo poetico per il racconto di un mondo che gocciola, crolla, si sgretola. La montagna sta cambiando velocemente spazzando via abitudini e saperi e un ghiacciaio che muore è una visione “terrificante”. Allora testimoniare questo evento diventa importante per farlo conoscere, per renderlo concreto, per creare coscienza di quanto i cambiamenti climatici siano impattanti. Il progetto di testimoniare con un documentario quanto sta accadendo lassù, al ghiacciaio dell’Adamello, il più grande ghiacciaio italiano, nasce da un incontro e da uno shock: «Con Paolo, che dall’anno prima stava seguendo lo scioglimento dei ghiacciai, nel giugno 2023 siamo saliti al ghiacciaio di Lares, nell’omonima valle laterale della più famosa val di Genova, nel gruppo dell’Adamello – racconta Stefano Collizzolli, documentarista e autore del progetto con il fotografo Paolo Ghisu – Una volta saliti, abbiamo visto che il fronte del Lares stava collassando dentro un lago nuovo, un lago lungo un chilometro, non una pozza. Decido quindi di salire su al Corno di Cavento (3400 metri) e arrivo al fronte glaciale, ma scelgo di non raggiungere la cima perché il fronte è completamente sconvolto e qui decido di fare un documentario. La decisione nasce da uno shock. Quando ho rivisto il ghiacciaio dopo quindici anni, il sentimento è stato traumatico e affascinante allo stesso tempo: c’erano grotte di ghiaccio, alcune intere altre sfondate, e dentro ogni grotta, rivoli e torrenti d’acqua che scorrono con una potenza sonora incredibile fatta di acqua, scricchiolii, pietra che schianta, gocciolii. Guardando questo scenario non mi sentivo direttamente in pericolo, ma la domanda era: “tiene o non tiene?” e un panico spirituale mi ha preso perché mi stava crollando il senso di stabilità della montagna, quello esistenziale per cui sui monti ritrovo il ciclo della natura che mi rasserena e che invece si sta sgretolando offrendomi però uno spettacolo gigantesco, ma talmente veloce che capisci che qualcosa non va, che c’è un che di patologico in quanto sta accadendo».  È un ambiente fragile, ma tutti dovrebbero vederlo per prendere coscienza di quanto sta accadendo al nostro mondo e quindi il documentario diventa esperienza e «chi attraversa questa esperienza se vuole ci pensa. Noi abbiamo scelto di fare testimonianza e condividere un’emozione che chi l’attraversa poi magari si informa anche perché più passa il tempo peggio è – continua Collizzolli – L’ultima volta che sono salito da solo nel rifugio sotto il Lares ho trovato tre cacciatori  e, dopo un primo impatto negativo, son partiti i racconti e sono arrivati i ricordi e sul punto emotivo ci siamo trovati. Questo è il senso ultimo del racconto». La situazione è cambiata e nessuno può negarlo: un ghiacciaio che si scioglie significa che gli animali salgono di 500 metri in un anno, che i camosci pascolano a 3200 metri, sopra il ghiacciaio, che i cervi sono arrivati ai laghi (2800 metri) e che anche il bosco sale rapidamente. Girare il documentario è una sfida tecnicamente difficile: quattro ore a piedi di salita, il tempo di lavoro limitato dalle stagioni, i professionisti selezionati anche in base alla disponibilità a salire lassù, tre camere installate dentro gabbioni da fototrappolaggio che scattano foto continuamente e aiutano a documentare il passare del tempo;  due impianti elettrici e uno fotovoltaico la cui funzionalità dipende dalla pioggia e dai cali di tensione, un computer che gestisce le camere e dice quando e come scattare, controllato grazie alla connessione satellitare. E anche qui sta il lavoro creativo che immagina e realizza strumenti e attrezzi: «La sfida è frustrante ma anche divertente: devo costruirmi anche lo strumento del racconto e anche l’audio è sperimentale. Emanuele Lapiana, il musicista che cura e crea il suono del documentario, ha usato microfoni da sott’acqua e uno l’ha sospeso sotto un crepaccio in modo da raccogliere tutte le sfumature di suono possibili».  Un aiuto arriva dall’elicottero messo a disposizione dal Parco Adamello Brenta che consente di trasportare l’attrezzatura più pesante, ma anche questo non è facile perché ci vogliono condizioni di tempo favorevoli e persone che aiutino il montaggio. A fine giugno scorso il progetto entra nel vivo: «Siamo saliti a fare le prime riprese sulla Vedretta del Lares. I due laghi sono ghiacciati, ma alle sponde le chiazze di acqua azzurra e verde si allargano. C’è ancora molta neve in quota, forse tre metri all’altezza dell’attuale fronte glaciale; è una neve strana, più in basso venata di rosa di sabbie del Sahara, più in alto ancora bianchissima. È certamente un bene che abbia nevicato così tanto quest’anno; ma è comunque manifestazione di uno squilibrio, e si avverte qualcosa di incongruo. È un po’ come quando si lascia il freezer aperto, e sulle pareti cresce la brina; certo, è neve, ed è acqua pronta per mitigare la siccità estiva, ma resta la sensazione che qualcosa non vada… Eravamo in quattro, con cinque camere e un drone. All’inizio eravamo preoccupati di essere impattanti su un ambiente così meraviglioso. Poi ci siamo accorti di essere piccolissimi» racconta il documentarista sui social. L’estate è davvero calda e a fine agosto il ghiaccio che si scioglie mostra, quasi con pudore, quanto è stato sepolto nel tempo e la memoria riemerge feroce e dolorosa: «Il ghiacciaio che si fonde è una macchina del tempo. Davanti al Carè Alto, dissepolta, trasportata, ed accumulata, ci viene restituita la Grande Guerra.  Un po’ come a dire: questo è quello che fate, voi umani.  Dopo essere stata sepolta e ferma nel ghiaccio, si fa di nuovo presente: il filo spinato taglia ancora, ed i proiettili di obice inesplosi sono ancora pericolosi, e vanno segnalati per la bonifica. In mezzo, ci sono pezzi di storie impossibili da ricostruire con precisione: i cerchi di metallo di una cucina economica, una lattina di conserva, la scala a pioli con la quale qualcuno si è affacciato da una trincea magari incontrando un proiettile di mitraglia. Il ghiacciaio se ne va, sembra ormai già passato per sempre. La guerra sembra di ieri, di questa mattina, un dolore sempre presente» annota ancora Collizzolli sui social. Intanto il lavoro lassù continua e l’intenzione è di filmare fino a metà ottobre se il tempo lo consente, ma occorre evitare la neve, quella vera, che dura fino alla prossima estate. In inverno comincerà il lungo processo di selezione e montaggio, ma l’intenzione è di tornare l’anno prossimo e continuare le riprese anche perché la macchina operativa è più o meno rodata e a giugno dovrebbe essere più semplice riportare tutto e continuare il lavoro, perché è necessario continuare a fare testimonianza. Il “Canto del ghiaccio” diventerà anche un’installazione al Muse, il  Museo delle Scienze di Trento: «Ci saranno tre schermi messi a trapezio e chi guarda sarà circondato dal ghiacciaio e vivrà un’esperienza che durerà pochi minuti. Attorno a questo spazio ci saranno pezzi del museo, foto, pannelli divulgativi – spiega Collizzolli – Il “Canto del ghiaccio” non vuole essere un appello, ma il  racconto audiovisivo funziona da innesco di interesse e sarà poi lo spettatore a farsi coinvolgere o meno».

Il progetto. Documentare per informare

“Il canto del ghiaccio” è un progetto ambizioso da molti punti di vista e per questo ha chiesto e ottenuto la collaborazione e il patrocinio di molti soggetti coinvolti a vari livelli. Un grande supporto è arrivato anche dalle persone raggiunte col passaparola e dall’amore per la salvaguardia della montagna, un patrimonio inestimabile che sta velocemente cambiando. Lassù frana tutto, la montagna scarica ed è sempre più labile la competenza alpinistica e questo momento critico va capito da tutti coloro che vogliono affrontare la montagna. È anche per la necessità di far conoscere a tutti quanto sta accadendo ai ghiacciai e alle rocce che il progetto de “Il canto del ghiaccio”, coordinato da ZaLab e Associazione Bianconero, ha trovato il supporto di numerosi soggetti coinvolti a vario titolo: dai glaciologi trentini e lombardi – il ghiacciaio dell’Adamello è diviso tra le due regioni – ai Comuni di Massimeno e Trento, dal Museo delle scienze al Parco Adamello Brenta, all’Ecomuseo Judicaria e varie associazioni culturali e ambientaliste perché un ghiacciaio che crolla rappresenta il mondo che cambia e questo cambiamento va compreso e vissuto.

Un documentario che diventa esperienza

Il progetto de “Il canto del ghiacciaio” testimonia quanto sta accadendo all’Adamello, il più grande ghiacciaio italiano: un ghiacciaio che si scioglie rappresenta il mondo che cambia e questo cambiamento va compreso e vissuto da tutti.

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