Istruire o educare? Occorre tornare a rendere la scuola un luogo capace di accendere il desiderio e di costruire dialoghi
Se la “falsa” dicotomia tra istruire ed educare non verrà definitivamente risolta, la scuola si trasformerà sempre più in un luogo di “prestazione” e di “misura”.
Istruire o educare? Il dibattito, avviato circa vent’anni fa in ambito scolastico dal pedagogista Riccardo Massa, è ancora attuale e non riguarda soltanto la scuola, ma tutte le agenzie educative.
La dicotomia “istruzione/educazione” resta in piedi nella pratica, nonostante sia stata risolta nei manuali, e diventa ancora più significativa nel panorama della “svolta” tecnicistica che la nostra società ha assunto negli ultimi decenni. La società del capitale e dei consumi ha imposto all’uomo di istruirsi e specializzarsi soprattutto nelle abilità pratiche e la scuola per molti aspetti ha assecondato questo impianto nell’ansia di rincorrere le esigenze del mondo del lavoro.
L’animal laborans, vittima del meccanismo produttivo e consumistico, ha preso nella pratica il sopravvento sull’homo faber, creatura razionale e creativa, anche nell’ambito educativo.
Così le azioni si sono concentrate man mano soprattutto attorno alla necessità di “saper fare” e con questa urgenza ci si è dedicati soprattutto a istruire, cioè a “inserire, incastrare, costruire” nozioni in perfetta sintonia con l’etimologia stessa di questa parola. Su questa china si è aperta la “crisi” della scuola, in maniera corrispondente e speculare al corto circuito materialistico di quella società che l’ha contaminata.
Se la “falsa” dicotomia tra istruire ed educare non verrà definitivamente risolta, la scuola si trasformerà sempre più in un luogo di “prestazione” e di “misura”. L’insegnamento assumerà i tratti del cognitivismo cieco, di quel didattismo docimologico che riduce l’insegnamento a una pratica misurabile sul piano dei profitti e dei risultati. La scuola si trasformerà in maniera definitiva in un luogo di costrizione che nulla ha a che vedere con il Peripatos aristotelico, l’antico giardino destinato all’esercizio del libero pensiero e della ricerca empirica.
Ai tempi del filosofo greco Aristotele la collocazione esterna del Peripatos, la presenza di aria e di luce offrivano, non solo in maniera metaforica, all’azione educativa la possibilità di estrinsecarsi nelle sue molteplici potenzialità. Chi ne era investito aveva la percezione di essere “condotto fuori” dai luoghi consueti e perfino da sé stesso, proprio come l’etimologia latina del termine ēdūcĕre indica.
Educare, in alcuni casi, vuol dire anche “trarre fuori” da un luogo protetto ed esporre all’ignoto, perfino all’esperienza del vuoto. Un tema che nella società attuale è oggetto di speculazione intellettuale, ma nella pratica è rifuggito e cacciato come un demone angosciante fra le pieghe del consumismo.
Ed è proprio il tabù dell’esperienza del vuoto, assieme alla necessità del saper fare a scapito del saper essere a segnare gli angusti recinti degli uomini contemporanei. In effetti, nel corso del secolo scorso, ci siamo illusi di poter arginare la nostra umana inquietudine riempiendo il vuoto esistenziale contemporaneo di manufatti, in alcuni casi dalle caratteristiche prodigiose. La capacità di saper fare ci ha traghettati in una dimensione ipertecnologica, capace di rispondere a quasi tutte le nostre necessità, tranne quelle più intime e spirituali.
Come possiamo credere che la scuola possa essere davvero un luogo di emancipazione se continuiamo a identificarla principalmente come luogo di trasmissione di saperi e contenuti? Come possiamo non riconoscere nello scollamento dell’interesse giovanile per la scuola e in tutti i relativi disagi che ne conseguono il pericoloso equivoco che vive la scuola, e ancor prima di essa la società che abbiamo edificato?
L’educazione è una trama complessa che si tesse attraverso il dialogo e lo scambio etico. Ha una fitta densità concettuale che risente anche del territorio su cui insiste, delle subculture di riferimento e dei fermenti che investono quotidianamente la nostra esistenza. Essa non può essere costruita su processi standard, come se non si occupasse che di “inserire dati” nella testa degli individui.
L’empasse è grave e sfidante. Occorre riguadagnare terreno e tornare a rendere la scuola un luogo capace di accendere il desiderio, di costruire dialoghi intimi e profondi, di educare anime e, infine, istruire menti.