Il ragazzo che non si è mai arreso. La storia di Emmanuel Taban, da fuggiasco a medico
Il Sudafrica oggi celebra il rifugiato fuggito dal Sud Sudan insanguinato dalla guerra civile, come uno dei medici eroi nella lotta contro il Covid-19.
Emmanuel Taban nasce alla fine degli anni Settanta in Sud Sudan. La sua è una famiglia contadina che vive di sussistenza, ma dove non mancano affetto e attenzione. Cresce in una capanna di fango, senza acqua corrente, servizi igienici o elettricità. “Eravamo autosufficienti, circondati dalla natura – racconta oggi – e si viveva bene, nonostante le condizioni di estrema povertà”.
Poi un giorno scoppia la guerra.
Alla prima sventagliata di kalashnikov, la famiglia scappava nella boscaglia, dove spesso si nascondeva per intere notti. Ufficialmente, il Sudan people’s liberation army (Spla) combatteva contro il governo del nord per ottenere l’indipendenza. Non è stato, come poteva sembrare a prima vista, uno scontro tra cristiani e musulmani. “È stata una guerra per il controllo delle risorse”, spiega Taban.
Emmanuel Taban finisce la prima volta in carcere quando ha solo 14 anni. Aveva preso le difese di un prete che era stato arrestato. Successivamente viene accusato di essere una spia. “Sono stato torturato e picchiato”, ricorda.
Nel 1994 qualcosa di piccolo e apparentemente banale gli cambia la vita. Sta sorseggiando una Coca Cola quando, ruotando la lattina legge la scritta “made in South Africa”. Anche se all’epoca conosceva poco del Paese di Nelson Mandela, qualcosa gli dice che in quella terra c’era la possibilità di vivere in pace e di trovare un lavoro. Decide quindi, come hanno fatto centinaia di giovani prima di lui, di fuggire. Ha 15 anni e sa che dovrà affrontare molte difficoltà. Lascia la sua famiglia, la sua casa e la sua terra e si mette in cammino. Letteralmente. Oltre 3.500 chilometri, percorsi spesso in autostop, ma soprattutto a piedi. Da Juba, oggi capitale del Sud Sudan, Taban inizia un lungo viaggio – che durerà due anni – attraverso Eritrea, Etiopia, Kenya, Tanzania, Mozambico e Zimbabwe, per arrivare finalmente in Sudafrica.
Taban racconta che beveva dalle pozzanghere e che preferiva spostarsi di notte. “Non avevo paura degli animali selvatici, ma di essere catturato dalle persone”, racconta. Per quanto giovane, ha già sperimentato sulla propria pelle a cosa possano portare il razzismo e la xenofobia.
Lungo il suo cammino ha incontrato innumerevoli difficoltà e ostacoli. Ha lavorato come lavapiatti, ha trascorso settimane in prigione come migrante illegale, ha vissuto per strada e in Kenya è quasi stato ucciso. Il giovane non voleva assolutamente stare nei campi profughi, perché non si fidava del sistema dell’Unhcr.
Quando un’infermiera gli dice che sarebbe cresciuto per diventare un medico, lui era fermamente convinto che quelle parole erano assurde. “La possibilità di riuscire a sopravvivere oltre l’infanzia era difficile da immaginare – racconta Taban sulla sua pagina Fb – per non parlare del poter andare a scuola”.
Oggi Emmanuel Taban vive in Sudafrica, ha tre lauree in medicina, lavora al Mediclinic Midstream e recentemente è stato scelto per offrire assistenza pneumologia al Mediclinic Highveld, un ospedale privato nella provincia di Mpumalanga, che in lingua zulu significa “regione dove sorge il sole”.
In questi mesi di pandemia, a Johannesburg, in un ospedale alla periferia della megalopoli sudafricana, Taban ha salvato dal soffocamento più di 170 pazienti affetti da Covid-19. Lo ha fatto rivoluzionando la broncoscopia, che era conosciuta soprattutto come uno strumento investigativo, e impiegandola come trattamento per liberare i polmoni.
Il Sudafrica oggi celebra il rifugiato fuggito dal Sud Sudan insanguinato dalla guerra civile, come uno dei medici eroi nella lotta contro il Covid-19.
Taban, che ha raccontato la sua storia in un libro, “The Boy Who Never Gave Up” (Il ragazzo che non si è mai arreso), ha un legame particolare con la Chiesa e con la Germania. La prima, attraverso i missionari che operano in Sud Sudan, gli ha permesso di frequentare la scuola primaria, mentre la seconda gli ha messo a disposizione le borse di studio grazie alle quali è riuscito a completare il percorso di formazione universitaria.
Taban oggi guida un’auto di grossa cilindrata e vive in una casa lussuosa, ma sa di non aver raggiunto ancora l’obiettivo della sua vita. Che non sta nelle cose materiali. “Se sono nato in Sud Sudan un motivo ci dev’essere”, afferma.
Nel 2011 il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza. Due anni più tardi è scoppiata di nuovo la guerra civile, questa volta tra i due gruppi Spla e i loro leader, il presidente Salva Kiir Mayardit e il leader dell’opposizione Riek Machar. Taban sospetta che il problema stia nella “mentalità” dei sud sudanesi: “Tutti si sentono trattati ingiustamente” – questo, combinato con il facile accesso alle armi, ha distrutto la sua terra. Secondo Taban, le avide élite di potere guardano un bicchiere di latte, ma senza chiedersi “come potremmo nutrire le mucche per avere più latte”. Questo problema, dice, attraversa tutte le generazioni.
Guardando e pensando alla sua terra, Taban vuole lavorare per lasciare un’eredità alla sua gente. “I cinesi oggi vengono in Africa e costruiscono una bella strada larga – spiega –. Nel frattempo, i nostri giovani siedono sotto un albero e non hanno idea di come mantenere quella strada. Dovrebbero essere invece loro ad usare le loro competenze per costruire la strada”. Taban, “il ragazzo che non si è mai arreso” vuole lavorare oggi per la pace nel suo Paese, una pace che abbia un fondamento solido: l’educazione. “Se, attraverso la mia storia, riuscirò a cambiare una sola vita, allora sarò felice”.