Il Presepe degli scrittori. Molti autori, credenti e no, si sono dedicati alla creazione di Francesco d’Assisi
Il presepe ha attirato l’attenzione di tanti, e non solo credenti, perché è divenuto il simbolo stesso di una festa che non ha perso di vista le origini povere e umili della nostra fede.
Tutto inizia a Greccio. Siamo nel 1223 e Francesco “trasforma quasi in una nuova Betlemme”, come scrisse Tommaso da Celano, l’allora sperduto borgo oggi in provincia di Rieti. È l’inizio di una storia che dura ai nostri tempi e continuerà per molto, perché divenuta immaginario collettivo e soprattutto straordinaria creatura di un uomo come il poverello d’Assisi, senza denaro, senza calzature di moda, senza abiti di gran marca, senza un posto dove dormire e nonostante tutto questo in grado di cambiare il mondo. E di scrivere uno dei testi più importanti della storia della nostra letteratura. Ha cambiato anche il nostro modo di ricordare la nascita di Gesù, un modo che ha influenzato l’arte (basti pensare all’affresco della basilica superiore di Assisi) e la letteratura.
Ad esempio Corrado Alvaro, uno dei grandi della nostra letteratura del Novecento, descrive in “Gente in Aspromonte” un presepe in un villaggio della sua terra, la Calabria, con i pastori che somigliano alle persone del posto, il cacciatore, il pastore e perfino il mendicante. E soprattutto lo scrittore riesce a dare l’impressione viva dell’attesa della gente, persone semplici e non impegnate a correre per i centri commerciali come ai nostri tempi, rivelandoci ancora una volta come il Natale non riguardi le mode aggiornate, le vacanze, i soldi, ma la persistenza di un qualcosa di indefinibile nel cuore, come se quell’evento di 2020 anni fa avesse lasciato una traccia archetipica e incancellabile in ognuno di noi.
Ma può diventare anche motivo di ossessione, di perfezione, di possibile vittoria al concorso sul presepe più bello, e anche di cedimento alle dicerie popolari, per cui un onesto padre di famiglia impone la realizzazione di un presepe, sempre lo stesso, per sette anni, la tradizione, non si sa mai, va rispettata, e allora ecco profilarsi alla fine “un cottolengo”, come lo definisce Achille Campanile, L’autore della gustosa storiella, “Il presepio dei sette anni”.
E poi c’è stato anche chi come Gianni Rodari, ha attualizzato i personaggi con la figura di un indiano nella filastrocca “Il pellerossa”, sospettato di rappresentare una minaccia per gli altri, armato com’è di “ascia di guerra in pugno ben stretta”, ma che fa nascere anche il dubbio che voglia semplicemente deporre di fronte alla mangiatoia quegli strumenti di guerra “perché ha sentito il messaggio: pace agli uomini di buona volontà”: un invito a non essere rigidi e soprattutto a non essere schiavi del nostro immaginario provinciale, a causa del quale vediamo qualsiasi diversità come un pericolo e non come una possibile ricchezza interiore.
Come dimenticare quello che ormai è un classico del teatro di Eduardo De Filippo, “Natale in casa Cupiello”? Nonostante età, acciacchi e problemi familiari, Luca, il capofamiglia, nei giorni immediatamente a ridosso del Natale, non ha che uno scopo: realizzare il presepe e sottoporlo all’approvazione degli altri, soprattutto del figlio Tommasino, il quale sadicamente gli risponde sempre che no, non gli piace “o’ presepio”. Solo quando Luca è sul letto di morte, e sta per raggiungere finalmente il grande “presepe dei cieli”, allora il figlio gli concederà il desiderato sì: il presepe, cui il papà ha dedicato tutta la sua attenzione sotto Natale, finalmente gli piace.
Come si vede da questi pochi esempi, il presepe ha attirato l’attenzione di tanti, e non solo credenti, perché è divenuto il simbolo stesso di una festa che non ha perso di vista le origini povere e umili della nostra fede, ricordando a tutti noi l’essenza stessa della vita cristiana.