Grecia, incendio nell’isola di Samos. Contenta (Msf): “600 persone evacuate e aiutate da società civile. Nessun morto”
A due settimane dall’incendio al campo di Moria a Lesbo, un altro rogo si è sviluppato questa notte al campo di Vathy sull’isola di Samos. Al momento non è stata registrata alcuna vittima. Le équipe di Medici senza frontiere (Msf) a Samos, attive dal 2015, riportano la distruzione di una serie di containers e tende. Circa 600 persone rimaste senza un rifugio hanno trovato una sistemazione in alcuni edifici dell’isola grazie all’aiuto di alcune Ong locali. L'intervista del Sir ad Andrea Contenta, operatore umanitario di Msf che segue i progetti a Samos
Sono circa 600 e non 5.000 le persone evacuate la notte scorsa a causa dell’incendio all’esterno del Vathy camp, nell’isola greca di Samos. All’ospedale pubblico ci sono alcune persone ferite per accoltellamento ma nessun morto o ferito a causa del rogo, di cui ancora non sono state accertate le cause. Lo conferma al Sir da Atene Andrea Contenta, operatore umanitario di Medici senza frontiere che segue i progetti nell’isola di Samos, in costante contatto con le sue fonti sul campo. Ieri notte è scoppiato un nuovo incendio dopo quello di due settimane fa nel campo di Moria a Lesbo, a riprova della situazione esplosiva e prossima al collasso nelle isole dell’Egeo. Il quotidiano greco Kathimerini sostiene che il rogo sia legato a scontri tra profughi iniziati nel pomeriggio. “Seicento persone hanno dovuto lasciare le proprie tende e hanno trascorso la notte nelle uffici e locali messi a disposizione dalle Ong e dalle persone del posto – precisa Contenta -. La prossima notte ci sarà una distribuzione di tende e beni di prima necessità, sempre a carico della società civile”. Tra agosto e settembre sono arrivate nelle isole egee oltre 18mila persone, soprattutto famiglie siriane e afghane, più del doppio di quelle arrivate nello stesso periodo un anno fa. Al 9 settembre 2019 risultano ufficialmente a Lesbo, Samos e Chios quasi 32.000 persone, di cui circa 28.000 vivono in 5 hotspot che potrebbero accogliere poco più di 6.000 persone. Il Vathy camp di Samos è stato pensato per 648 persone e invece oggi ce ne sono 6.000, che vivono all’esterno in tende ed abitazioni di fortuna, senza servizi igienici e acqua, in condizioni igienico-sanitarie ad alto rischio. La metà sono donne e bambini, tra cui oltre 300 minori non accompagnati. Nel campo di Moira a Lesbo, a fronte di una capienza di 3.000 posti, vivono oltre 13mila persone: il 42% sono minori tra i 7 e 12 anni, tra cui quasi 1.000 bambini e ragazzi arrivati da soli. Questa è la situazione a tre anni e mezzo dagli accordi tra Ue e Turchia: oltre 32.000 persone intrappolate nelle isole greche in condizioni disumane. Tutto ciò mentre è in corso l’offensiva militare della Turchia contro i curdi nel nord est della Siria. Il presidente Recep Tayyip Erdogan sembra usare come merce di scambio politico la vita delle persone in fuga: “La comunità internazionale deve sostenere gli sforzi del nostro Paese – ha scritto in un editoriale pubblicato sul Wall Street journal – o cominciare ad accettare i rifugiati dalla Siria”. Msf ha diffuso i video dell’incendio e della distruzione nel campo di Vathy.
Incendi evitabili se condizioni fossero migliori. “Al momento non abbiamo informazioni chiare sulle cause dell’incendio ma sappiamo che non c’è nessun morto”, precisa l’operatore di Medici senza frontiere. L’organizzazione umanitaria sta offrendo supporto all’ospedale pubblico con attività di mediazione culturale. Distribuisce 40.000 litri d’acqua al giorno e beni di prima necessità e da alcuni mesi si occupa di salute mentale, con psicologi all’interno e all’esterno del campo di Samos. “Il problema è che luoghi che dovevano essere temporanei sono diventati permanenti, a causa degli effetti negativi delle politiche europee. Gli incendi si sarebbero potuti evitare se le persone vivessero in condizioni migliori”, sottolinea.
In allerta per il conflitto nel Kurdistan. Medici senza frontiere è “in allerta” per i conflitti nella regione, dall’altro lato del mare. “Bisogna anche dire che non è Erdogan a far partire i gommoni – precisa Contenta -. C’è un problema più ampio. Al momento non abbiamo visto cambiamenti negli arrivi ma forse è ancora presto per fare questo tipo di analisi. Ancora una volta se non si mette priorità sulla salute e sulla sicurezza delle persone piuttosto che sui confini non riusciamo a risolvere la situazione”. Quello che si sta affrontando negli ultimi tre anni e mezzo a causa degli accordi tra Unione europea e Turchia, sottolinea, “è grave e preoccupante”: “Mantenere un accordo che finora ha prodotto effetti negativi su migliaia di persone vuol dire essere completamente ciechi e non ascoltare i bisogni reali”.
“Continuare a ripetere che si stanno mettendo in sicurezza i passaggi e gli attraversamenti – prosegue – è altamente fuorviante. Di fatto negli ultimi anni abbiamo visto tutto l’opposto: le persone continuano a morire in mare, ad essere intrappolate da una parte o dall’altra del confine. Ovviamente sono spinte a prendere rotte sempre più rischiose”.
Mancano volontà politica e un piano a lungo termine. La situazione del sovraffollamento nelle isole greche, a suo avviso, “riguarda innanzitutto la mancanza di un piano a lungo termine, perché la situazione è stata affrontata finora solo dal punto di vista dell’emergenza”. Sarebbe necessario “un discorso più ampio che riguarda tutta l’Europa: si dovrebbero ridiscutere gli accordi e cercare di affrontare in maniera condivisa i problemi legati agli arrivi”. Il vertice di Malta delle scorse settimane ha infatti riguardato solo 4 Paesi europei. “Ad oggi sulle isole greche non ci sono risultati – osserva -. Quello che serve al momento, come soluzione di emergenza, è portare le persone da un’altra parte. In Grecia i campi continuano ad essere affollati”.
“Bisogna ripensare un modello fallito che non funziona. Non si può continuare a pensare di accumulare o respingere le persone come se fossero oggetti in un magazzino”.
In linea generale, conclude, “non ci sarà un punto di svolta se i Paesi europei non trovano una volontà politica comune. Il fenomeno non può essere sempre affrontato con il campo, la tenda, l’emergenza. Non mancano né i mezzi né i soldi. Stiamo parlando di un numero di persone alto ma non assolutamente ingestibile. Nel mondo ci sono flussi di migrazioni che riguardano milioni di persone. È molto limitante pensare che l’Europa non sia in grado di gestire poche centinaia di migliaia di persone”.