Ddl suicidio assistito: disattende le indicazioni della Consulta e può spingere i malati più fragili verso il baratro di scelte drammatiche
A quanti hanno davvero a cuore l’effettiva protezione di chi, malato, versa in condizioni di fragilità e vulnerabilità, sta ora il compito di scongiurare che una proposta di legge - inappropriata anche nella sua incoerenza costituzionale - finisca per rappresentare una spinta verso il baratro di scelte drammatiche e spesso esito di solitudine esistenziale, che certamente non è nelle intenzioni degli stessi proponenti del ddl
Il testo di legge unificato disattende le indicazioni della Corte costituzionale che nella sentenza n. 242 del 2019 aveva auspicato una disciplina del legislatore ma in conformità ai principi enunciati dalla sentenza stessa.
Principi che ora vanno ricordati.
Primo: l’assistenza al suicidio resta un reato, ma non è punibile chi agevola l’esecuzione del proposito suicida, libero e autonomo, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili.
Secondo: il proposito suicidario del paziente deve essere preceduto da un percorso di cure palliative, vero e proprio “pre-requisito della scelta” onde evitare che si cada “nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative” (sono parole della Corte n. 242/19).
Terzo: personale sanitario e medici, dunque il Sistema Sanitario Nazionale – sempre a detta della Consulta – restano estranei ai casi considerati e, dunque, non si pone alcun tema di obiezione di coscienza.
Rispetto al primo richiamo della Corte, il ddl amplia indebitamente la platea dei potenziali suicidi, andando oltre i casi di malattia irreversibile, con l’estensione alle persone portartici “di una condizione clinica irreversibile” (art. 3, lett. a). Si tratta di un salto culturalmente devastante e non consentito dal disposto della Corte costituzionale, in quanto parifica ai malati le persone con disabilità, lanciando un messaggio rovinoso alla società: anche la vita di questi ultimi può non essere degna di essere vissuta e, dunque, se ne può agevolare l’intento suicidario.
In punto, poi, di accesso al percorso delle cure palliative, vero e proprio baluardo del sistema sanitario per evitare affrettati esiti fatali verso pazienti fragili e vulnerabili, nel ddl tale condizione pregiudiziale si riduce a una fredda circostanza burocratica, certificata da un indefinito atto (“rapporto”) redatto da un sanitario con la sommaria indicazione che la persona è genericamente a conoscenza del diritto di accedere alle cure palliative (art. 5, comma 3). Le parole della Corte sono di tutt’altro tenore, gravose come pietre e richiamano “l’esigenza di adottare opportune cautele affinché l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative”. Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, infatti, secondo il disposto della Corte «un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente». Dunque, la Consulta indica con chiarezza che soltanto dopo – e si sottolinea “dopo” – l’attivazione di un percorso di palliazione e terapia del dolore, al paziente è consentito imboccare strade alternative, come appunto la scelta suicidaria.
Infine la terza criticità, la più pesante.
Il ddl prevede che la c.d. “morte volontaria medicalmente assistita” possa avvenire presso una struttura ospedaliera (art. 5, comma 5) con la conseguente – e ovvia – possibilità che, arrivati a questo punto, il personale sanitario possa avvalersi dell’obiezione di coscienza, dovendo altrimenti aiutare un paziente a suicidarsi (art. 6). Tale esito è frutto di un’arbitraria aggiunta del testo di legge e ribalta la prospettiva indicata dalla Corte costituzionale, la quale, espressamente, proprio sul ruolo del Servizio sanitario, si esprime nei seguenti termini: ”al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”. A detta della Corte, dunque, nessun coinvolgimento diretto del Sistema della sanità italiana, di cui medici e personale sanitario rappresentano l’asse portante, e, pertanto, nessun problema – neppure astratto – di obiezione di coscienza. Il ddl smentisce indebitamente il dettato della Corte costituzionale che invita il legislatore a una “sollecita e compiuta disciplina” ma “conformemente ai principi precedentemente enunciati”, con la conseguenza che l’attuale travalicamento di tali principi comporta inevitabilmente l’illegittimità costituzionale dello stesso ddl.
Se il testo di legge trovasse accoglimento nelle aule parlamentari, dunque, si giungerebbe ad un vulnus costituzionale, aprendosi una vera e propria breccia in un sistema sanitario che, pur con le sue ombre, resta tra i più invidiati al mondo. Ne sarebbe conseguenza il ribaltamento della missione istituzionale del SSN che – occorre ricordarlo – è rivolta “alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio” (art. 1, legge 833/78, che istituisce il Sistema Sanitario Nazionale).
Le conseguenze sarebbero pesantissime sia in termini culturali che sociali. Un coinvolgimento delle strutture sanitarie – dove per definizione si cura e si somministrano terapie e non farmaci letali – aprirebbe a veri e propri protocolli e prassi mediche di enorme impatto sulla percezione collettiva del ruolo della sanità e ne finirebbero per fare le spese proprio i pazienti più soli e fragili che, avendo anche tale possibilità esiziale, comporrebbero il campione più ricettivo della nuova prospettiva eutanasica. Anche perché, in un’ottica cinica e inconfessabile ma drammaticamente realistica, libererebbero posti letto e risorse economiche.
A quanti hanno davvero a cuore l’effettiva protezione di chi, malato, versa in condizioni di fragilità e vulnerabilità, sta ora il compito di scongiurare che una proposta di legge – inappropriata anche nella sua incoerenza costituzionale – finisca per rappresentare una spinta verso il baratro di scelte drammatiche e spesso esito di solitudine esistenziale, che certamente non è nelle intenzioni degli stessi proponenti del ddl.
Alberto Gambino (*)
(*) professore ordinario di Diritto privato – presidente nazionale Scienza & Vita – prorettore vicario Università Europea di Roma