Ddl Zan. Gli aspetti giuridici e teologici della “nota” della Santa Sede
Papa Francesco sapeva della «nota verbale» con cui il Vaticano ha chiesto di «rimodulare» il disegno di legge Zan contro l’omotransbifobia? E c’è lui dietro la retromarcia palesata dal cardinale Pietro Parolin? Sono gli interrogativi che più rimbalzano nei palazzi delle istituzioni al di qua e al di là del Tevere, come sui social e nel mondo cattolico. La duplice risposta la dà lo stesso segretario di stato vaticano Parolin: «Il principio è che di tutto quello che si fa si informano sempre i superiori».
Ma andiamo per ordine e ricostruiamo i fatti. Tutto comincia quando un giorno della scora settimana appare inaspettatamente sui giornali la cosiddetta «nota verbale» del Vaticano, un atto diplomatico con cui la Santa Sede chiede alla «Parte italiana» (così viene definita) di intervenire sul ddl Zan per «trovare una diversa modulazione del testo» che «continui a garantire il rispetto dei Patti Lateranensi». Due pagine prive di firma, con in calce il timbro della Segreteria di stato vaticana, che sono già un documento storico. La forma è sobria, ma la sostanza pesante. La Santa Sede si muove su due piani: uno giuridico, l’altro teologico. Da un lato si citano gli articoli del Concordato che il ddl metterebbe a repentaglio; dall’altro si fa riferimento a «espressioni della Sacra Scrittura (...), che considerano la differenza sessuale, secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione divina». Si afferma, in sostanza, che l’interpretazione della sessualità è sottratta alla comprensione storica, appartiene — e in questo riecheggia un lessico ratzingeriano — a quel nucleo «indisponibile» della religione che viene definito “non negoziabile”.
A questo punto interviene in parlamento il primo ministro Draghi: «Il nostro è uno Stato laico – dichiara – non è uno Stato confessionale. Quindi il parlamento è certamente libero di discutere e di legiferare. Sono considerazioni ovvie». La risposta di Mario Draghi alla «nota verbale» della Segreteria di Stato vaticana che chiede di modificare il ddl Zan contro l'omotransbifobia perché violerebbe il Concordato del 1984 arriva nel tardo pomeriggio al Senato. La scena ha una regia accurata. È in corso il dibattito sulle comunicazioni sul prossimo consiglio europeo, il presidente non può parlarne di sua iniziativa, sarebbe una sgrammaticatura istituzionale. Tocca dunque a un senatore del Pd, sostenitore della legge, porgli una domanda sul tema delle discriminazioni. Chiede se il Pd può contare di avere a fianco il governo «sul principio della laicità: libera Chiesa in libero Stato».
Draghi risponde «senza voler entrare nel merito della questione», ma con un formidabile esercizio di stile e di perizia gesuitica. Innanzitutto rassicura Oltretevere che lo stato italiano sa quel che fa: «Il nostro ordinamento contiene tutte le garanzie per assicurare che le leggi rispettino sempre i principi costituzionali e gli impegni internazionali, tra cui il concordato con la Chiesa. Precisa quindi che vi sono i controlli di costituzionalità preventivi nelle competenti commissioni parlamentari» e «poi successivi nella Corte costituzionale». Ribadisce infine che l’Italia “è uno Stato laico”, ma con il ddl Zan ci sono «delle disposizioni principali dell’Accordo con lo Stato italiano, che potrebbero essere intaccate».
Il Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, intervistato da Vatican News dice di concordare con il presidente del Consiglio, Mario Draghi, sulla “laicità dello Stato e sulla sovranità del Parlamento italiano”, ma allo stesso tempo lascia intendere che la Santa Sede desidera che il disegno di legge contro l’omotransbifobia venga cambiato. “Non è stato in alcun modo chiesto di bloccare la legge”, sottolinea Parolin. Che però conferma le critiche al ddl: «La nostra preoccupazione riguarda i problemi interpretativi che potrebbero derivare nel caso fosse adottato un testo con contenuti vaghi e incerti». La preoccupazione riguarda sempre “il tema della libertà di opinione”, nonostante il provvedimento approvato alla Camera e ora fermo al Senato preveda la cosiddetta “clausola salva idee” proprio per rispondere alle critiche sulla presunta limitazione della libertà di pensiero.
Fin qui i fatti. Ma quali i problemi giuridici e soprattutto i risvolti teologici che li hanno determinati? In riferimento ai primi è parere diffuso e relativamente condiviso da parte di molti cattolici, non di tutti ovviamente, che la diplomazia vaticana abbia fatto il passo più lungo della gamba. Unica attenuante: la “nota verbale” che doveva rimanere segreta è invece trapelata per vie traverse ed è finita sui giornali. Più problematici e a mio parere meno condivisibili sono i risvolti teologici posti a fondamento della “nota” e condensati nella rivendicazione di un’interpretazione della differenza sessuale “secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione divina”.
Questo il punto su cui riflettere più accuratamente e riprendere il dibattito teologico. Anche perché dietro al paravento giuridico di una “nota verbale”, per quanto legittima, si intravvedono i problemi di una chiesa che non è tuttora in grado, non dico di risolvere, ma nemmeno di affrontare, un ripensamento etico-normativo rigoroso e condivisibile della morale sessuale, matrimoniale e familiare. Ma così facendo il rischio è che si perpetui o addirittura si rinforzi un pericoloso circolo vizioso tra relativismo pratico da una parte e legalismo morale dall’altra che porta la chiesa, in particolare il magistero, a non avvertire l'urgenza di analizzare in modo antropologicamente più avvertito ed eticamente più articolato la complessità delle situazioni e delle istanze morali che scaturiscono dal vangelo.